Attenzione a fare le mosse di Totò: a dire “Lei non sa chi sono io…” si rischia la condanna penale!
Che sia pronunciata seriamente o enfatizzata per scherno la battuta fatidicamente proferita nel celebre dialogo tra l’Onorevole Trombetta ed il Principe De Curtis, in arte Totò, “lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!”, è da sempre stata oggetto di controversia giurisprudenziale fino alla recente pronuncia della Corte di Cassazione emessa proprio nel marzo 2012.
Quest’ultima si è trovata, difatti, a decidere su un caso particolarmente avvincente: un distinto sessantenne salernitano autore di uno scambio di battute per antichi dissapori con una compaesana, all’indirizzo della quale pronunciava la celebre espressione.
Una volta denunciato dalla donna, in primo grado, egli veniva assolto dal Giudice di Pace, stante che veniva rilevata ‘l’inidoneita’ offensiva’ della locuzione, ed, in quanto non minacciosa, non punibile penalmente.
Non era dello stesso avviso, il Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno che, avverso tale decisione, ricorreva in Cassazione inoltrando un ricorso inneggiante alla condanna del ricorrente per ingiurie e minacce, che ha incontrato, in tale sede, il favore dei giudici.
A nulla sono valse, infatti, nel successivo grado di giudizio, le memorie difensive con le quali la difesa legale dell’uomo lamentava la ‘persecuzione giudiziaria’ in atto ai danni del proprio cliente che, in fin dei conti, non aveva detto nulla che fosse talmente impressionante nei confronti della sua interlocutrice né aveva mai voluto intimidirla in alcun modo.
Nel marzo 2012, la Cassazione emette il suo verdetto sovvertendo il precedente giudizio: basta una frase poco felice pronunciata in un contesto di alta tensione verbale e lasciando intendere, altresì, che, potenzialmente, il soggetto che l’ha pronunciata potrebbe essere in grado di mettere in pratica quanto minacciato, per concretizzare una condanna per minaccia.
I supremi giudici hanno sottolineato che si’, a ben vedere, “l’espressione deve essere valutata nel suo complesso e il giudice di pace non si e’ soffermato adeguatamente a considerare il contesto in cui si inseriva, escludendone ogni idoneita’ minatoria’, pur tuttavia, secondo la Corte ‘andava, e andra’ valutata dal giudice del rinvio, nel concreto ambito in cui era stata pronunciata, in un contesto, cioe’ di alta tensione verbale, da persona che utilizzando l’espressione che ‘l’avrebbe fatta pagare’ essendone capace (‘non sai chi sono io’) colorava e riempiva di contenuti minacciosi la frase pronunciata, perché nulla ne circoscriveva il significato all’adozione di iniziative lecite, e la supposizione in quel senso del giudice non è collegata a concreti agganci alla realtà di quel momento”.
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Giudice di merito (il Giudice di pace) per un nuovo esame in modo da rivalutare risultanze processuali secondo le indicazioni fornite dalla Corte e provvedere sulle spese sostenute dalla parte civile.
Pertanto, sulla base di tale convincimento, la Suprema Corte ha ravvisato gli estremi dei reati di minaccia ed ingiuria, ritenendo che la locuzione incriminata “lei non sa chi sono io” si è palesata, nel caso di specie, come una vera e propria promessa di vendetta.
Tale espressione, secondo i Giudici di piazza Cavour, è in grado di limitare la libertà psichica della “vittima” attraverso la prospettazione del pericolo che un danno ingiusto le possa essere provocato così come è sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire non avendo importanza che il male prospettato sia indeterminato.
Gli Ermellini hanno stabilito che l’espressione ha un contenuto in grado di limitare la “libertà psichica” altrui se viene pronunciata in un “contesto di alta tensione verbale”, ossia un qualsivoglia alterco, motivo per cui è sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire, irrilevando l’indeterminatezza del male minacciato, purché quest’ultimo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente.
Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 612 C.P., è sufficiente, quindi, la sola attitudine della condotta ad intimorire la vittima ed è irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto, possa essere dedotto dalla situazione contingente nella quale viene prospettato, e, ovviamente, sia “credibile”, ossia possa essere astrattamente realizzabile da parte del soggetto agente ai danni della vittima.
La frase “incriminata” va, pertanto, letta in “combinato disposto” con la promessa di una vendetta.
La sentenza si inserisce in un filone piuttosto originale: quella che nel “common sense” viene percepita come una celebre battuta che ha fatto la storia del cinema italiano e che è l’emblema dello scontro di classe di una certa Italia post fascista, oggi viene considerata come un atto lesivo della libertà altrui, tanto grave da potere integrare una fattispecie penale.
Tale espressione, singolarmente considerata, non costituisce, di per sé, reato a meno che non sia inserita nel contesto della frase “lei non sa chi sono io e te la farò, quindi, pagare”, in tal caso, giustamente, il Supremo organo di legittimità (la Corte di Cassazione), ha criticato la decisione del giudice di pace, perché effettivamente in questo “contesto” la persona può realmente sentirsi minacciata.
Cosa si rischia ? una multa fino a 51 euro e, se la minaccia è grave, pure la reclusione fino a un anno!
In tutti gli altri casi, in cui, parafrasando Totò, chiunque voglia sfogarsi pronunciando “Lei non sa chi sono io” potrà farlo per derisione senza essere suscettibile di un’imputazione penale, ma volendo dirla, attingendo al vasto campionario di questo personaggio chje ha fatto la storia del cinema italiano, si ricordi << Badi come parli >>.
Dott.ssa Antonella Nobile
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