Le festività pasquali ce le siamo messe ormai alle spalle, ma la parole dell’Arcivescovo di Agrigento, pronunciate dal sagrato della Chiesa di san Domenico durante l’omelia al termine della processione del Venerdì Santo, no. Quelle parole, cariche di contenuti, di significato, fotografia di una drammatica realtà, non possono esaurirsi nel breve soffio di un servizio o di una notizia compressa. Diversi i passaggi che meritano profonda analisi, attenzione.
Partiamo dalle parole di don Franco: “Signore, secondo me, ad Agrigento si sente più il venerdì santo e meno la forza e la gioia della Pasqua. La Pasqua qui sembra una domenica come le altre, come se tutto finisca nella notte del Venerdì santo. Forse esagero, Signore, ma questa sofferenza me la porto nel cuore” – osserva ancora don Franco.
Una sofferenza, aggiungiamo noi, certamente condivisibile, che travolge tutti. Forse Agrigento e gli agrigentini si cimentano meglio, nelle funzioni che rievocano la passione e la morte di Cristo, non a caso. Si immedesimano con maggiore trasporto spirituale perché bene allenati alla morte materiale di una città segnata dalla sofferenza, dalle lacerazioni, dalle tensioni e da una classe dirigente e politica che finisce per lavarsi le mani come Pilato. Finisce così per condannare alla croce il presente e il futuro di un popolo che forse non vuole reagire. Non è abituato a sperimentare la gioia delle resurrezione. Ecco perché allora la Pasqua, come sottolineato dall’Arcivescovo, diventa una domenica come le altre.
Agrigento e gli agrigentini si fermano alla croce, al calvario. All’orizzonte non intravedono la luce, una nuova vita. Insomma gli agrigentini sembrano vivere in simbiosi la dimensione terrena con le funzioni del Venerdì Santo. Se proprio vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno: almeno c’è una linea di coerenza.
E l’intreccio fede, devozione, e gestione della cosa pubblica è un altro passaggio presente nell’omelia di don Franco.
Il Pastore della Agrigentina parla di scippo di vita, attentato al bene comune riferendosi al gioco incomprensibile dello scarica barile proprio di una certa burocrazia e della mala politica, che determina, aggiunge nel suo discorso don Franco, immobilismi, lentezze, ulteriori paralisi e impoverimenti. Stento a comprendere come, vedendo passare il tempo, non ci rendiamo conto delle sempre più numerose urgenze e continuiamo a non fare scelte idonee. E tra le emergenze passate in rassegna da monsignor Montenegro anche la situazione della Cattedrale di Agrigento, chiusa ormai da tempo, e del centro storico che continua a cadere a pezzi.
Vogliamo chiudere con le parole di Monsignor Montenegro. “Non possiamo permetterci la rassegnazione. La città è di noi che la viviamo. I nostri avi ci hanno consegnato il sogno di una città grande, fa’ che non lo spegniamo, rifiutandone l’eredità”.
L’Arcivescovo lancia allora le sue raccomandazioni in Alto, nella speranza che qui, in basso, uomini e donne di buona volontà, anche e soprattutto quelli investiti da ruoli di responsabilità istituzionale a qualsiasi livello, raccolgano questo grido di allarme e operino per donare alla città di Agrigento al territorio la speranza, la gioia della Resurrezione.