L’autore narra dei tanti viaggi all’estero effettuati per incontrare colleghi o condannati da sentire nell’ambito delle tante rogatorie internazionali richieste ai fini d’indagine, e che tanto importanti alla fine risultarono essere, soprattutto per svelare i tanti intrighi e le innumerevoli reti che la mafia stava pericolosamente tessendo fuori dall’Italia. Viaggi, sui quali sin da subito iniziarono a fioccare, contro i magistrati palermitani, feroci critiche, riferite ad una sorta di “turismo giudiziario” che gli stessi, secondi i loro detrattori, avrebbero intrapreso. Critiche smontate in maniera egregia dall’autore, che realizza una vera e propria “guida” all’attività giudiziaria realizzata in quei difficili e complessi anni di indagini inedite, poi rivelatesi vincenti. Così come sono presenti e narrati alcuni momenti di vita familiare molto toccanti ed allegri. La famiglia Ayala, infatti, spesso si incontrava con “Giovanni e Francesca”, per passare tranquille serate in salotto o divertenti vacanze al mare. Ed in queste righe viene fuori tutta l’ironia che, come precisa lo stesso Ayala, era la loro unica “arma” contro le difficoltà quotidiane e le minacce continue. Esilaranti sono i ricordi dei dialoghi, anche al citofono, tra Falcone ed i figli dell’autore, così come quotidianamente si tentava di dare un profilo di normalità ai molti momenti che i magistrati vivevano accanto alle loro scorte. Ma non deve considerarsi secondaria la figura di Paolo Borsellino, il quale è ricordato sin dal titolo, che infatti è una citazione della celebre frase del magistrato ucciso in via D’Amelio “è bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”: parole che erano già premonitrici di tristi destini e di lutti collettivi.
Il libro di cui si sta scrivendo, ha avuto per il proprio autore anche un valore di catarsi umana e personale, poiché “qualcuno ha scritto che dopo più di 15 anni da quel tremendo 1992”, annus orribilis, “Ayala ha ormai pagato il torto di essere rimasto vivo”. Affermazione tanto cinica quanto verosimile, come fa intendere lo stesso Ayala. Si sappia, infatti, che il 22 maggio del 1992, il giorno prima, quindi, della strage di Capaci, Giuseppe Ayala avrebbe dovuto prendere l’aereo con Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, cosa che poi non fece, per questioni definibili di personale opportunità logistica: la Morvillo ebbe infatti un impegno che le impedì di poter prendere il volo, posticipando di conseguenza il viaggio di un giorno, ma al neo parlamentare Ayala non allettava l’idea di dover arrivare a Palermo per poi ripartire poco più di 24 ore dopo. Ecco cosa gli salvò la vita, impedendogli, di fatto, di sedersi in una macchina che da dall’aeroporto di Punta Raisi avrebbe percorso solo pochi kilometri sull’autostrada in direzione Palermo. Decise infatti di non partire con gli amici per quel week-end palermitano, dando appuntamento a Falcone per la settimana successiva. Cosa avvenne l’indomani è la storia di una giornata che, ancora oggi, sembra durare da più di vent’anni, senza fine, eterna.
Antonio Fragapane