Giuseppe Maurizio Piscopo
Anna Pavone è nata a Catania e divide il suo cuore e le carte tra la sua città e Milano. Ha ammucchiato i lavori e i ricordi dentro borse disordinate. Scrive di libri, scrive sui libri e fa le orecchie alle pagine, così si sentono meglio. Racconta storie a bassa voce, inquadrando in bianco e nero o se c’è un microfono da accendere. Questo è il suo terzo libro dopo Pirandello e i suoi adulteri. Da grande voleva fare il dottore dei pazzi, ma i pazzi l’hanno riconosciuta e le hanno prestato le loro voci.
Come e quando nasce la sua passione per i libri e per la scrittura?
Ci sarà stato senz’altro il giorno in cui mia madre mi ha insegnato a scrivere, intorno ai tre anni, ma è come se l’avessi sempre fatto. Ricordo invece perfettamente la prima insegna che sono riuscita a leggere: UTIL, un negozio di ferramenta. Poi ho scoperto l’Olivetti verde di mio padre e per un po’ ho smesso di usare la penna, mi piacevano di più quei tasti alti in cui incidere le lettere. Da quel momento credo di non aver mai smesso di scrivere. Su diari, quaderni, libri, fazzoletti. E di leggere, dai volumi al retro del bagnoschiuma.
Come era da bambina, ricorda il suo primo giorno di scuola, la maestra, i suoi compagni, l’atmosfera di quel tempo nella sua città?
Frequentavo ancora l’asilo quando la Maestra Nella mi portò nella sua classe. La mia maestra, una di quelle persone con una passione così forte e così profonda da non riuscire a tenerla per sé. In realtà non era un vero primo giorno di scuola, facevo solo una “prova”, ma ero felice ed emozionata, mi sentivo grande. C’erano i banchi attaccati, io seduta in fondo a leggere un brano dal libro di lettura. Accanto a me Katia, come adesso. Quell’anno ho fatto l’esame e sono entrata in seconda. Ed era bello la mattina alzarsi per andare a scuola. Non so dire che atmosfera ci fosse in quel periodo, in un paese relativamente piccolo come il mio il tempo e il mondo erano concetti lontani, astratti. Com’ero io da bambina? Forse solo un po’ più bassa di ora.
“Vento traverso” è un libro molto delicato che raccoglie la voce di chi non ha voce. Come e quando è nata l’idea per questo progetto?
L’idea era lì da molto tempo. Negli anni avevo raccolto storie di disagio psichico, le avevo scritte ed erano rimaste in attesa. Poi due anni fa alcuni amici psichiatri e psicologi mi hanno permesso di incontrare i loro pazienti, di avere accesso ad ambulatori e centri. Ho quindi avuto la possibilità di incontrare moltissime persone, ma anche di ascoltare racconti fatti da terzi: c’è sempre qualcuno che vuole raccontarti una storia quando sa che stai scrivendo un libro. E di storie sul disagio psichico ce ne sono davvero tante. Il mio obiettivo era rendere questi racconti “altro” rispetto a un romanzo o a una raccolta di racconti. Dovevano essere frammenti, esattamente come arrivavano a me, frammenti disarticolati, spesso scomposti. Né un romanzo, né una raccolta di racconti, né tantomeno un saggio. Solo voci.
La sua libreria è costituita da moltissimi libri, tra cui anche di psichiatria e psicanalisi. Come mai da dove nasce questa passione?
La sezione saggistica della mia libreria ha due punti forti, che rispondono alle mie grandi passioni: la critica letteraria e la psicologia. La passione per i fili che nella mente fanno cortocircuito nasce al ginnasio, grazie a un altro grande maestro, il prof. Sorrentino, che mi fece conoscere Freud. Rimasi folgorata da “L’interpretazione dei sogni” e continuo a portarmi dentro quella stessa curiosità ogni volta che spulcio volumi del settore.
Lei ha ascoltato le voci dei pazienti che avevano nostalgia della parola che facevano fatica ad esprimersi e che nessuno voleva ascoltare?
Ho ascoltato le voci di chi sente le voci. Il problema non era la difficoltà nell’espressione verbale, ma la capacità di sintonizzarsi sulla medesima frequenza. Alcuni di loro erano a conoscenza del libro che stavo scrivendo e avevano desiderio di raccontarsi, le voci di altri erano invece deliri o semplicemente mi trovavo ad ascoltarli nei corridoi o nelle sale d’attesa. Prendevo sempre appunti, senza mai registrare. Non volevo violare l’intimità e la bellezza di quei dialoghi o di quei mozziconi di parole. Così mi sono trovata con un vasto materiale, a volte informe da riscrivere, altre perfettamente adatto alla pagina. E all’inizio non sapevo come avrei lavorato su quei fogli, quale sarebbe stato il mio ruolo. Di certo non volevo essere uno spettatore esterno, distaccato, terzo. Non volevo neanche cadere nel pietismo o nella macchietta. Poi un uomo mi ha detto che era spiacente di non potermi raccontare nulla perché “quello che parlava se n’è andato”. Ho capito allora che potevo essere io “quello che parlava”.
Che cos’è la follia del nostro tempo?
Credo che il concetto di follia sia molto relativo al contesto storico e culturale, un po’ come la bellezza, i cui canoni cambiano trasversalmente e nel tempo. Dai riti dionisiaci passando per la manifestazione del demonio, dall’Orlando furioso al “mantice pieno d’aria”, che poi è l’etimo di folle. Da un certo punto in avanti la medicina ha sgonfiato quella bolla dalla superstizione e dalle credenze e l’ha riempita di farmaci e diagnosi. Sono troppo contemporanea a quest’epoca per poter dire con lucidità cosa sia oggi la follia. Forse la paura dell’altro da sé che diventa culto smisurato del proprio stretto recinto, la costruzione di muri reali o ideali che finiscono per ingabbiare e non per proteggere, l’assenza di empatia che si contiene tutta in un assioma “Tu non puoi capire”.
I matti sono fuori?
Ogni volta che tornavo a casa con il mio taccuino di appunti, ogni volta che venivo folgorata da racconti o semplicemente da discorsi che aprivano mondi di comprensione, che svitavano i cardini dentro cui stringiamo la realtà, pensavo che sì, i veri matti sono fuori. Nel senso che siamo noi quelli pazzi, quelli che restringono il campo vastissimo del reale a un angolo asfittico per avere più protezione. I veri pazzi sono quelli che non sentono il vento dentro la testa, non quelli che non asciugano i capelli perché il phon soffierebbe via i pensieri.
Che cosa è cambiato oggi rispetto al passato nei confronti di gravi malattie psichiatriche come la schizofrenia? Sicuramente c’è molta più attenzione all’aspetto umano e alla famiglia, la legge Basaglia ha scardinato meccanismi di contenzione e violenza, di ricoveri coatti e senza possibilità di recupero per motivi non strettamente psichiatrici: nei manicomi vivevano persone che nulla avevano a che vedere con la schizofrenia o con altre patologie, che magari avevano delle disabilità, una depressione non curata, un atteggiamento fuori dalla norma, o che erano diventate un peso per i familiari.
Nel suo splendido libro non c’è prefazione, non sia parla di diagnosi, di profili e di cartelle cliniche…
Io e il mio editore, Angelo Scandurra, abbiamo deciso di non consegnare ai lettori un libro che avesse il sapore della patologia, della raccolta di casi clinici. A partire dal titolo fino all’assenza di una prefazione esplicativa. Ci sono solo tre righe alla fine per ringraziare quanti mi avevano aiutato in questo percorso. Nient’altro. Perché non volevamo dare a priori una interpretazione, volevamo che ciascun lettore fosse un funambolo che cerca il suo senso, non quello che noi avremmo potuto imporre. E poi volevamo dare ai matti una voce che fosse completamente diversa da quella abituale, fatta appunto di cartelle cliniche e diagnosi, un linguaggio altro, un’altra pancia, un altro modo di guardare alle cose. Abbiamo deciso anche di non mettere segni per separare i frammenti, perché tra l’uno e l’altro può esserci la storia di chiunque. Così come abbiamo deciso di non segnare i numeri delle pagine…
Prima i “matti” venivano nascosti nelle famiglie oggi invece l’approccio con loro è molto più dolce, le persone vengono portate fuori dalle strutture e partecipano ai laboratori. Ci può parlare dell’esperienza di Mantova dei laboratori teatrali…
Fino a non molto tempo fa la malattia mentale era uno stigma sociale, una vergogna per le famiglie che facevano di tutto per nascondersi. La tendenza oggi è quella invece di integrare i pazienti psichiatrici nel tessuto sociale attraverso laboratori, corsi, incontri. L’anno scorso ho visitato il centro diurno di Mantova, una struttura ben gestita e molto funzionale. Lì, come in moltissime altre città in cui sono presenti centri diurni, l’idea è quella di portare “fuori” i pazienti per gite, laboratori teatrali, di scrittura e così via. Non il mondo che “entra” in uno spazio chiuso e ovattato, ma quello spazio che si apre ed esce.
Il Teatro e il Cinema, la Musica, l’Arte possono recuperare la malattia della mente?
Sicuramente l’arte, in tutte le sue forme, ha un ruolo fondamentale nelle terapie. La comunicazione non verbale del mondo interiore arreca grandi benefici in chiunque. In particolare nei soggetti con disagio psichico c’è un miglioramento dei rapporti con se stessi e con gli altri anche grazie a una maggiore consapevolezza delle proprie capacità creative, oltre che una migliore gestione della quotidianità. Molte comunità che ho visitato organizzano corsi di pittura, di teatro, di scrittura, momenti dedicati al cinema, alle visite a mostre e musei.
Anche il primo pentito di cosa nostra Leonardo Vitale venne dichiarato pazzo. La sua storia è stata raccontata dal regista Stefano Incerti nel film: ” L’uomo di vetro”…
Il vetro richiama la fragilità e la trasparenza. Il mio libro precedente “Trame d’adulterio. Il primo teatro di Pirandello” analizzava alcune sue commedie. In particolare mi viene in mente il prof. Paolino de “L’uomo, la bestia e la virtù”, un uomo “trasparente” che rivendica questo tratto contrapponendolo alla bestialità dei commedianti, degli “upocritès”. Un po’ come i pazzi, trasparenti e fragili. E la pazzia, come unica voce possibile della verità, è spesso al centro della riflessione pirandelliana: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a far la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!” (Il berretto a sognagli) Esattamente come nella storia di Leonardo Vitale.
Perché la nostra società non vuol sentir parlare di malattia mentale ed emargina di fatto chi vive questi problemi?
Viviamo in un’epoca in cui l’essere si identifica con il fare. La persona è il suo mestiere. La velocità è sinonimo di efficienza e l’efficienza è imperativa. La malattia mentale non fa. Il pazzo allunga tempi e vocali. “Gli operatori qui li riconosci subito, aprono e chiudono le porte, camminano e parlano velocemente, ci salutano mentre hanno le mani impegnate. Noi abbiamo le parole lente, dobbiamo stabilizzarle prima di chiamarle per nome”. E poi non possiamo nascondere che la malattia mentale faccia paura, anche oggi che le conoscenze hanno sdoganato molti pregiudizi. Fa paura perché non possiamo controllarla, non possiamo relazionarci senza rinunciare a qualcosa di quello che abbiamo costruito attorno e dentro di noi. Fa paura perché sappiamo che la mente è “un filo di capelli”, come dicevano i nostri nonni, e anche il nostro filo di capello potrebbe spezzarsi.
Simone Cristicchi con una sua canzone qualche anno fa ha vinto il Festival di Sanremo. Crude e amare le parole del testo:- “Siamo solo piscio e segatura e per noi non esiste cura”… Mi fa male ascoltare questa canzone senza speranza alcuna. Sono certo che le cose non stanno così e che la scienza sta facendo e continuerà a fare passi da gigante in questo campo… Qual è il suo pensiero in proposito?
Cristicchi ha fatto un bel lavoro nel recupero di documenti d’archivio di ex manicomi e ha portato a conoscenza del grande pubblico storie e lettere nelle canzoni e nel libro “Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti”. L’ha fatto in modo forte e delicato allo stesso tempo, parlando di quello che accadeva dentro i manicomi. Ovviamente oggi quegli scenari non esistono più, restano però come memento nei libri, nella musica, nell’arte.
Cosa bisogna fare per rompere schemi e pregiudizi nel nostro paese, da dove bisogna cominciare?
Credo si debba cominciare dall’ascolto delle tante voci, dall’empatia, dal riconoscere se stessi dentro gli altri e viceversa. Tutto il resto viene da sé.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Continuerò a farmi portare in giro dal Vento traverso con nuove presentazioni e progetti, tra cui allestimenti teatrali basati sul mio testo. Ho in cantiere laboratori di scrittura anche per associazioni che si occupano di disabilità mentale, oltre che percorsi tematici per chi desidera mettersi alla prova davanti a un foglio bianco. E poi continuerò a farmi prendere dalle storie e a raccontarle…