Giuseppe Maurizio Piscopo
Giornalista, scrittore e autore teatrale italiano (n. Adrano 1953). Per il quotidiano “La Sicilia” ha diretto dal 1990 al 2009 le redazioni di Ragusa e di Siracusa. Fondatore e direttore fino al 2012 della rivista culturale “Stilos”, per la sua attività di giornalista è stato insignito di numerosi riconoscimenti. Già collaboratore de “L’Unità”, “La Stampa Tuttolibri”, “Il Riformista”, “Il Domenicale del Sole 24Ore”, oggi collabora con “La Repubblica” di Palermo. Oltre ad avere curato e pubblicato il romanzo inedito di S.A. Guastella Due mesi in Polisella(2000), ha scritto i libri-inchiesta L’isola che trema (2006) e Il fiele le furie(2009); i romanzi Busillis di natura eversiva (2008) I sette giorni di Allah(2012), Cronaca di Catania (2013) e La scoperta della mafia (2014); la raccolta di racconti L’occhio sociale del basilisco (2001); le opere teatrali Ragione sociale (Premio Pirandello 2000) e La revisione del tempo; i saggi letterari I cancelli di avorio e di corno (2007), Maschere siciliane (2007), Il carico da undici (2007) e Tutto Camilleri (2012)Quando nasce la tua passione per la scrittura e per il giornalismo?
La volta in cui, studiando Diritto penale, lessi un articolo su La Sicilia sulla scarcerazione di un detenuto e pensai di mandare al giornale una lettera di bentornato in società che mi procurò decine di attestazioni da parte di carcerati e non solo. Pensai che studiavo per qualche lavoro che non mi avrebbe permesso di rendermi utile mentre con una semplice lettera avevo rinfrancato una comunità e mi ero sentito bene. Avevo vent’anni e accarezzai l’idea che anziché il commissario di polizia avrei fatto il giornalista.
Come eri da bambino, quali ricordi conservi di Adrano del tuo paese natio, del Maestro, del tuo primo giorno di scuola, dei compagni, dell’atmosfera di allora?
Adrano è stato il paese dove sono nato e dove sono stato dai quindici ai vent’anni, ma essendo mio padre carabiniere (e per quello volevo diventare commissario) e soggetto a continui trasferimenti, crebbi in un paesino di mille abitanti, Casalvecchio Siculo, sui Peloritani. Il maestro delle Elementari si chiamava De Lea. Molti anni dopo, quando sarei stato direttore della Rtp di Messina, mi venne a trovare senza annunciarsi e soltanto rivedendolo rivissi i cinque anni con lui. Mi ricordò che avevo vinto un concorso radiofonico nazionale su “Il paese in cui vivi” leggendo un mio tema. E mi disse che, più di me e dei miei genitori, era stato lui il più fiero. Mi ricordò anche quanto già sapevo: che in aritmetica ero proprio irrecuperabile. Ma soprattutto mi fece ripensare a quando, insieme con altri compagnetti, inventammo un giornalino scritto a penna su fogli di quaderno con una tiratura di dieci copie e che distribuivamo a scuola. Il maestro De Lea mi disse che avevo preso molto sul serio la cosa.
Qual è il tuo rapporto con la città di Catania?
Di “odi et amo”. La prima volta che la visitai fu perché compagni di classe mi trascinarono da Adrano in Via delle Finanze, allora quartiere di lucciole, e io chiesi alla prostituta che mi toccò di dire loro che ero un toro, ma in realtà pagai senza farmi toccare. Poi è diventata la città dei miei studi universitari e infine del mio lavoro ultraventennale a La Sicilia. Ci vivo ma ancora non mi sono ambientato. Per farlo sto scrivendo una serie di gialli che hanno per protagonista un giornalista catanese. Forse mi serve per conoscere la città.
Che cos’è per te il giornale?
A volte un bollettino di buone azioni, secondo le amicizie dell’editore e a volte una commissione di censura, secondo i suoi avversari. Per me un giornale ha motivo d’essere se inquieta e non se consola; e risponde alla legge economica secondo la quale moneta cattiva scaccia moneta buona, intendendo che la cattiva notizia ha sempre la prevalenza nell’interesse reale del lettore. Ma sono sempre meno i giornali disposti a dare solo cattive notizie. Significa farsi tanti nemici in un tempo in cui i giornali nascono per farsi amici, diversamente che in passato.
Ma i giornali di oggi sono veramente obiettivi o raccontano quella che in British io chiamo la mezza missa?
Ricordo che uno storico direttore del Messaggero teneva dietro di sé, affisso al muro, un avviso rivolto a ogni giornalista che entrasse: “Prima di usare un aggettivo o un avverbio chiedetemi il permesso”. Sapeva che bastava qualificare un fatto esprimendo una propria valutazione per non essere più obiettivi. Io non ho mai letto, se non nei take delle agenzie di stampa, ma non sempre e non del tutto, articoli privi di avverbi e aggettivi. Del resto, nemmeno una sentenza giudiziaria, che dovrebbe esprimere la voce impersonale della Giustizia, è senza aggettivi. Anzi ce ne sono più nelle sentenze che negli articoli. Ammettiamo che è difficile, forse più dell’esercizio al quale è sottoposto in Zoo, lettere non d’amore, l’innamorato di Viktor Sklovsckij cui viene imposto di scrivere lettere d’amore senza nominare i propri sentimenti e servendosi di perifrasi. Non è umano.
Perché nei quotidiani non si fanno più reportage, inchieste ed approfondimenti?
Così come al cinema non si vedono più film western e neorealistici, nei giornali l’inchiesta ha lasciato spazio allo scoop: la notizia data per primi vale più di una inchiesta esclusiva, che richiede tempo e mezzi. Si è scelto di delegare le istituzioni a svolgere le loro inchieste e limitarsi a fare loro da megafono, perlopiù senza verificarne la verità. Sono passati i tempi di Besozzi che sbugiardava lo Stato sulla morte di Giuliano. Oggi si preferisce dare notizia invece che farla, com’è stato in passato.
Tu hai grande esperienza di Tv. Ma cos’è diventata oggi laTv, che fa finta di approfondire un argomento e lascia tutto come sta, in maniera quasi gattopardiana, vedi l’esempio di Porta a Porta. Qual è la tua opinione in proposito?
Sono stato tra i primissimi a operare nella televisione privata quando ancora si chiamava libera. Ricordo la festa alla sentenza della Corte costituzionale che ci legittimò strappandoci l’etichetta di pirati. Ero a Teletna il giorno in cui alcuni soci litigarono e andarono via minacciando che avrebbero fondato una televisione a colori, che poi sarebbe stata Telecolor, fino a qualche anno la più importante emittente siciliana, oggi ridotta a Cenerentola. Cos’è oggi la Tv? Quella locale è morta ed è veramente inguardabile. Infatti non la guarda più nessuno. Colpa sua. Quella nazionale va consolidandosi come on demand mentre l’informazione perpetua modelli da anni Ottanta, senza alcun progresso. Basta guardare i telegiornali e i dibattiti ricordando com’erano un tempo. Non credo che qualcuno sia in grado di notare differenze, né in meglio né in peggio. A me pare che l’informazione mutui l’esempio di Giacobbo di Voyager: mille domande e mai una risposta.
Come vedi il futuro dei libri e dei giornali ai tempi di internet. Libri e giornali scompariranno o bisogna cambiare qualcosa?
Siamo in una fase talmente incipitaria di un’era di cui non riusciamo a immaginare gli sviluppi che parlare di futuro di carta e virtuale è come, al tempo delle prime autovetture, pronosticarne l’avvenire con le strade piene di carrozze. Non so chi vincerà la partita, ma sono certo di una cosa: se i giornali, per stare al passo del web, continuano a fare autolesionismo arricchendo i propri siti a discapito innanzitutto dei propri giornali su carta l’esito appare segnato. Tuttavia mi è capitato di chiedere a mio figlio, messo con gli occhi su un tablet, cosa stesse leggendo e ho avuto una risposta che soddisfa i dubbi del nostro tempo di transizione: “Un libro”. Quanto ai giornali, credo che non debbano essere tanto loro a cambiare ma i siti web: i quali amano definirsi “giornali online“, per modo che i giornali possano dirsi a loro volta “siti web”, giusta la proprietà transitiva, ma sappiamo che così non è né i veri giornali vogliono che lo diventi. I giornali stampati perdono lettori perché i “giornali online” sono gratuiti. La partita è dunque impari. Ad ogni modo è anche vero che i giornali virtuali peccano di grossissime lacune professionali. Succede come in politica: una volta per diventare solo consigliere di quartiere occorreva una lunga gavetta. Oggi chiunque può candidarsi anche alle Politiche.
Qual è il segreto di Andrea Camilleri?
Avere fatto come Cristoforo Colombo che fece stare in piedi un uovo semplicemente schiacciandolo. Tutti dicevano che nessuno poteva scrivere in dialetto siciliano, nel senso cioè che oltre ai personaggi anche l’autore si esprimesse nella parlata locale. Anche Sciascia diffidò Camilleri dal farlo e lo stesso Pirandello non è andato oltre due sole commedie in vernacolo. Camilleri, facendo come il calabrone di Einstein che vola non sapendo della legge fisica che in teoria glielo impedisce, ha scritto dall’inizio in dialetto e ha aperto un orizzonte che non si credeva praticabile. Ma si potrebbe anche dirla così, prendendo in prestito quanto Luigi Baldacci disse di Verga: il merito di Camilleri non è stato di aver scoperto il dialetto ma di averlo fatto comprendere senza interprete, se è vero che anche i trentini e valdostani leggono i suoi libri. E questo è un mistero maggiore del motivo perché il calabrone vola.
Cosa pensi degli scrittori che raccontano la Sicilia?
La letteratura ha fatto senz’altro conoscere la Sicilia più della storia, sin dai giganti, gli elefanti nani e i Lestrigoni. Se le togliamo l’invenzione letteraria la Sicilia smette di essere un luogo e diventa solo uno spazio, per usare la differenza di Farinetti. Levate la fata Morgana, Colapesce, Re Artù, Encelado, Tifone, Demetra e Kore, Cyane, Aretusa, Polifemo, Giufà e decine di tanti altri personaggi e ditemi cosa resta. Non dimentichiamo che Pirandello e Verga costituiscono i dioscuri della letteratura nazionale: senza di loro non avremmo avuto in Italia il romanzo psicomachico da un lato e il romanzo sociale dall’altro. Tutti siamo nipotini dell’uno e dell’altro, Camilleri compreso, che forse è però nipote di entrambi.
Confesso, che quando su Repubblica che leggo tutti i giorni trovo un pezzo tuo e di Salvatore Ferlita lo leggo il giornale con più piacere.
Capita anche a me quando leggo Ferlita.
Che cosa ti spinge a raccontare le curiosità di Frank Sinatra, Frank Capra, di John Travolta e di altri siciliani che hanno fatto fortuna in America?
L’anagrafe. Mi sono occupato di undici star americane di origini siciliane nella speranza di apprendere dai loro parenti, di cui mi sono messo alla ricerca, del loro attaccamento alle radici. Non tutti hanno mostrato tanta sensibilità. Ho potuto constatare che per i siciliani, i loro celeberrimi parenti sono come il vecchio “zio d’America”, da aspettare e di cui menare vanto. C’è anche da dire che molte di queste star, come Liza Minnelli, Frank Sinatra e John Travolta, hanno dichiarato il loro amore per la Sicilia ma si sono ben guardate dal venire a trovare zii e cugini. Appunto per non fare “gli zii d’America” che portano pacchi-dono.
Qual è la tua idea della “Merica”? ‘ Ci sei mai stato?
Sono un po’ come Vittorini, che scrisse pure una Storia della letteratura americana e più volte annunciò un viaggio, ma non ci andò mai. In compenso io me la sogno spesso l’America e amo le serie Tv americane e i film americani. Se debbo dirlo, mi piace stare a girarmi gli Stati Uniti su Earth di Google. Il nuovo modello permette persino di girare anche le strade di ogni città. Un po’ come esserci.
Chi sono i tuoi scrittori di riferimento?
Io sono mafioso come Sciascia, nel senso che parteggio solo per gli autori siciliani, anche se poi leggo scrittori di ogni nazione. Ma trovo che quelli siciliani (di ieri naturalmente perché quelli di oggi sono davvero poca cosa, escluso Camilleri of course) siano decisamente superiori. Basterebbero per una letteratura nazionale. Li amo tutti, da Teocrito a Camilleri, sul quale ho scritto tre libri, uno di quasi mille pagine, ma se fossi costretto a scegliere indicherei i figli legittimi di Verga e Pirandello, cioè Sciascia e Bufalino. Li ho conosciuti entrambi, specie il secondo che ho densamente frequentato. Ancora oggi, rileggendoli, mi sembra di passare da un giardino a un altro: da quello geometrico e formale all’italiana a quello fantasioso e baroccheggiante all’inglese.
E i tuoi giornalisti di riferimento?
Due, pressoché sconosciuti. Si chiamavano Malin e Brunori. Venivano da Repubblica e li ho conosciuti alle Gazzette di Ciarrapico dove ho lavorato. Mi hanno insegnato a pensare il giornale anche graficamente. Malin, un grande bevitore di birra e più grande fumatore, mi diceva che un giornale va guardato prima di essere letto. Lo faccio tutt’oggi e non sempre mi sembra di vedere quadri. Quanto ai colleghi che leggo volentieri, non mi pare di vedere eccellenze. Sarà la grande professionalità che tende a uniformare tutti, ma l’impressione è che si scriva rispondendo a un manuale. Forse dev’essere così se si vuole essere davvero giornalisti.
Hai mai incontrato il giornalista Pippo Fava? Che cosa hai apprezzato in quest’uomo?
L’ho conosciuto e ho seguito da vicinissimo prima Il Giornale del Sud e poi I Siciliani. A quel tempo realizzavo servizi televisivi per una televisione privata e frequentavo la redazione e la tipografia perché stampavo un mio giornaletto che usciva ad Adrano. Peraltro ai Siciliani lavorava mio nipote, Miki Gambino, per cui ero un po’ di casa. Fava un giorno si sperticò in complimenti per i servizi televisivi che facevo e che lui evidentemente vedeva. Ammiravo in lui il fatto che avesse lasciato La Sicilia perché in disaccordo con l’editore, non immaginando che molti anni dopo avrei fatto esattamente come lui. Eppure un giorno lo vidi al bar, dove pranzava frugalmente, leggere proprio La Sicilia. Mi spiegò che non riusciva a lavorare senza aver letto il giornale di Catania. Altri tempi.
Quali sono i maggiori difetti dei siciliani? E i maggiori pregi?
I siciliani non hanno difetti o pregi. Condividono un modo d’essere, che a volte è un difetto e a volte un pregio. Per questo ci presentiamo in tre modalità, secondo se ci valiamo della sicilianità, della sicilitudine o del sicilianismo. La distinzione è di Sciascia, non mia. La sicilianità integra la coscienza di una speciale condizione anagrafica, la sicilitudine un modo d’essere dovuto “a particolari vicissitudini storiche e alla particolarità degli istituti” e il sicilianismo designa lo stato dei siciliani legati al dato di natura che li rende vittime da sempre e per sempre. Quindi la sicilianità è data da una ipertrofia dell’io collettivo che spinge a sentirsi diversi, la sicilitudine dalle ricadute che le vicende storiche e le istituzioni pubbliche determinano in un preciso periodo e il sicilianismo discende da una vieta e corriva forma di vittimismo di cui i siciliani soffrono per loro costituzione.
E’ vero che le donne siciliane sono molto “possessive”?
Il mitologema della Lupa verghiana non è isolato. Patti e Capuana hanno dimostrato questo tipo di donna. Guttuso le ha dato un aspetto e a Siracusa fa ancora bella mostra la Venere Anadiomene che stregò il parigino Maupassant. Io però preferisco identificare la donna siciliana con la Malena di Tornatore: sensuale e poetica più che possessiva.
La volta in cui, studiando Diritto penale, lessi un articolo su La Sicilia sulla scarcerazione di un detenuto e pensai di mandare al giornale una lettera di bentornato in società che mi procurò decine di attestazioni da parte di carcerati e non solo. Pensai che studiavo per qualche lavoro che non mi avrebbe permesso di rendermi utile mentre con una semplice lettera avevo rinfrancato una comunità e mi ero sentito bene. Avevo vent’anni e accarezzai l’idea che anziché il commissario di polizia avrei fatto il giornalista.
Come eri da bambino, quali ricordi conservi di Adrano del tuo paese natio, del Maestro, del tuo primo giorno di scuola, dei compagni, dell’atmosfera di allora?
Adrano è stato il paese dove sono nato e dove sono stato dai quindici ai vent’anni, ma essendo mio padre carabiniere (e per quello volevo diventare commissario) e soggetto a continui trasferimenti, crebbi in un paesino di mille abitanti, Casalvecchio Siculo, sui Peloritani. Il maestro delle Elementari si chiamava De Lea. Molti anni dopo, quando sarei stato direttore della Rtp di Messina, mi venne a trovare senza annunciarsi e soltanto rivedendolo rivissi i cinque anni con lui. Mi ricordò che avevo vinto un concorso radiofonico nazionale su “Il paese in cui vivi” leggendo un mio tema. E mi disse che, più di me e dei miei genitori, era stato lui il più fiero. Mi ricordò anche quanto già sapevo: che in aritmetica ero proprio irrecuperabile. Ma soprattutto mi fece ripensare a quando, insieme con altri compagnetti, inventammo un giornalino scritto a penna su fogli di quaderno con una tiratura di dieci copie e che distribuivamo a scuola. Il maestro De Lea mi disse che avevo preso molto sul serio la cosa.
Qual è il tuo rapporto con la città di Catania?
Di “odi et amo”. La prima volta che la visitai fu perché compagni di classe mi trascinarono da Adrano in Via delle Finanze, allora quartiere di lucciole, e io chiesi alla prostituta che mi toccò di dire loro che ero un toro, ma in realtà pagai senza farmi toccare. Poi è diventata la città dei miei studi universitari e infine del mio lavoro ultraventennale a La Sicilia. Ci vivo ma ancora non mi sono ambientato. Per farlo sto scrivendo una serie di gialli che hanno per protagonista un giornalista catanese. Forse mi serve per conoscere la città.
Che cos’è per te il giornale?
A volte un bollettino di buone azioni, secondo le amicizie dell’editore e a volte una commissione di censura, secondo i suoi avversari. Per me un giornale ha motivo d’essere se inquieta e non se consola; e risponde alla legge economica secondo la quale moneta cattiva scaccia moneta buona, intendendo che la cattiva notizia ha sempre la prevalenza nell’interesse reale del lettore. Ma sono sempre meno i giornali disposti a dare solo cattive notizie. Significa farsi tanti nemici in un tempo in cui i giornali nascono per farsi amici, diversamente che in passato.
Ma i giornali di oggi sono veramente obiettivi o raccontano quella che in British io chiamo la mezza missa?
Ricordo che uno storico direttore del Messaggero teneva dietro di sé, affisso al muro, un avviso rivolto a ogni giornalista che entrasse: “Prima di usare un aggettivo o un avverbio chiedetemi il permesso”. Sapeva che bastava qualificare un fatto esprimendo una propria valutazione per non essere più obiettivi. Io non ho mai letto, se non nei take delle agenzie di stampa, ma non sempre e non del tutto, articoli privi di avverbi e aggettivi. Del resto, nemmeno una sentenza giudiziaria, che dovrebbe esprimere la voce impersonale della Giustizia, è senza aggettivi. Anzi ce ne sono più nelle sentenze che negli articoli. Ammettiamo che è difficile, forse più dell’esercizio al quale è sottoposto in Zoo, lettere non d’amore, l’innamorato di Viktor Sklovsckij cui viene imposto di scrivere lettere d’amore senza nominare i propri sentimenti e servendosi di perifrasi. Non è umano.
Perché nei quotidiani non si fanno più reportage, inchieste ed approfondimenti?
Così come al cinema non si vedono più film western e neorealistici, nei giornali l’inchiesta ha lasciato spazio allo scoop: la notizia data per primi vale più di una inchiesta esclusiva, che richiede tempo e mezzi. Si è scelto di delegare le istituzioni a svolgere le loro inchieste e limitarsi a fare loro da megafono, perlopiù senza verificarne la verità. Sono passati i tempi di Besozzi che sbugiardava lo Stato sulla morte di Giuliano. Oggi si preferisce dare notizia invece che farla, com’è stato in passato.
Tu hai grande esperienza di Tv. Ma cos’è diventata oggi laTv, che fa finta di approfondire un argomento e lascia tutto come sta, in maniera quasi gattopardiana, vedi l’esempio di Porta a Porta. Qual è la tua opinione in proposito?
Sono stato tra i primissimi a operare nella televisione privata quando ancora si chiamava libera. Ricordo la festa alla sentenza della Corte costituzionale che ci legittimò strappandoci l’etichetta di pirati. Ero a Teletna il giorno in cui alcuni soci litigarono e andarono via minacciando che avrebbero fondato una televisione a colori, che poi sarebbe stata Telecolor, fino a qualche anno la più importante emittente siciliana, oggi ridotta a Cenerentola. Cos’è oggi la Tv? Quella locale è morta ed è veramente inguardabile. Infatti non la guarda più nessuno. Colpa sua. Quella nazionale va consolidandosi come on demand mentre l’informazione perpetua modelli da anni Ottanta, senza alcun progresso. Basta guardare i telegiornali e i dibattiti ricordando com’erano un tempo. Non credo che qualcuno sia in grado di notare differenze, né in meglio né in peggio. A me pare che l’informazione mutui l’esempio di Giacobbo di Voyager: mille domande e mai una risposta.
Come vedi il futuro dei libri e dei giornali ai tempi di internet. Libri e giornali scompariranno o bisogna cambiare qualcosa?
Siamo in una fase talmente incipitaria di un’era di cui non riusciamo a immaginare gli sviluppi che parlare di futuro di carta e virtuale è come, al tempo delle prime autovetture, pronosticarne l’avvenire con le strade piene di carrozze. Non so chi vincerà la partita, ma sono certo di una cosa: se i giornali, per stare al passo del web, continuano a fare autolesionismo arricchendo i propri siti a discapito innanzitutto dei propri giornali su carta l’esito appare segnato. Tuttavia mi è capitato di chiedere a mio figlio, messo con gli occhi su un tablet, cosa stesse leggendo e ho avuto una risposta che soddisfa i dubbi del nostro tempo di transizione: “Un libro”. Quanto ai giornali, credo che non debbano essere tanto loro a cambiare ma i siti web: i quali amano definirsi “giornali online“, per modo che i giornali possano dirsi a loro volta “siti web”, giusta la proprietà transitiva, ma sappiamo che così non è né i veri giornali vogliono che lo diventi. I giornali stampati perdono lettori perché i “giornali online” sono gratuiti. La partita è dunque impari. Ad ogni modo è anche vero che i giornali virtuali peccano di grossissime lacune professionali. Succede come in politica: una volta per diventare solo consigliere di quartiere occorreva una lunga gavetta. Oggi chiunque può candidarsi anche alle Politiche.
Qual è il segreto di Andrea Camilleri?
Avere fatto come Cristoforo Colombo che fece stare in piedi un uovo semplicemente schiacciandolo. Tutti dicevano che nessuno poteva scrivere in dialetto siciliano, nel senso cioè che oltre ai personaggi anche l’autore si esprimesse nella parlata locale. Anche Sciascia diffidò Camilleri dal farlo e lo stesso Pirandello non è andato oltre due sole commedie in vernacolo. Camilleri, facendo come il calabrone di Einstein che vola non sapendo della legge fisica che in teoria glielo impedisce, ha scritto dall’inizio in dialetto e ha aperto un orizzonte che non si credeva praticabile. Ma si potrebbe anche dirla così, prendendo in prestito quanto Luigi Baldacci disse di Verga: il merito di Camilleri non è stato di aver scoperto il dialetto ma di averlo fatto comprendere senza interprete, se è vero che anche i trentini e valdostani leggono i suoi libri. E questo è un mistero maggiore del motivo perché il calabrone vola.
Cosa pensi degli scrittori che raccontano la Sicilia?
La letteratura ha fatto senz’altro conoscere la Sicilia più della storia, sin dai giganti, gli elefanti nani e i Lestrigoni. Se le togliamo l’invenzione letteraria la Sicilia smette di essere un luogo e diventa solo uno spazio, per usare la differenza di Farinetti. Levate la fata Morgana, Colapesce, Re Artù, Encelado, Tifone, Demetra e Kore, Cyane, Aretusa, Polifemo, Giufà e decine di tanti altri personaggi e ditemi cosa resta. Non dimentichiamo che Pirandello e Verga costituiscono i dioscuri della letteratura nazionale: senza di loro non avremmo avuto in Italia il romanzo psicomachico da un lato e il romanzo sociale dall’altro. Tutti siamo nipotini dell’uno e dell’altro, Camilleri compreso, che forse è però nipote di entrambi.
Confesso, che quando su Repubblica che leggo tutti i giorni trovo un pezzo tuo e di Salvatore Ferlita lo leggo il giornale con più piacere.
Capita anche a me quando leggo Ferlita.
Che cosa ti spinge a raccontare le curiosità di Frank Sinatra, Frank Capra, di John Travolta e di altri siciliani che hanno fatto fortuna in America?
L’anagrafe. Mi sono occupato di undici star americane di origini siciliane nella speranza di apprendere dai loro parenti, di cui mi sono messo alla ricerca, del loro attaccamento alle radici. Non tutti hanno mostrato tanta sensibilità. Ho potuto constatare che per i siciliani, i loro celeberrimi parenti sono come il vecchio “zio d’America”, da aspettare e di cui menare vanto. C’è anche da dire che molte di queste star, come Liza Minnelli, Frank Sinatra e John Travolta, hanno dichiarato il loro amore per la Sicilia ma si sono ben guardate dal venire a trovare zii e cugini. Appunto per non fare “gli zii d’America” che portano pacchi-dono.
Qual è la tua idea della “Merica”? ‘ Ci sei mai stato?
Sono un po’ come Vittorini, che scrisse pure una Storia della letteratura americana e più volte annunciò un viaggio, ma non ci andò mai. In compenso io me la sogno spesso l’America e amo le serie Tv americane e i film americani. Se debbo dirlo, mi piace stare a girarmi gli Stati Uniti su Earth di Google. Il nuovo modello permette persino di girare anche le strade di ogni città. Un po’ come esserci.
Chi sono i tuoi scrittori di riferimento?
Io sono mafioso come Sciascia, nel senso che parteggio solo per gli autori siciliani, anche se poi leggo scrittori di ogni nazione. Ma trovo che quelli siciliani (di ieri naturalmente perché quelli di oggi sono davvero poca cosa, escluso Camilleri of course) siano decisamente superiori. Basterebbero per una letteratura nazionale. Li amo tutti, da Teocrito a Camilleri, sul quale ho scritto tre libri, uno di quasi mille pagine, ma se fossi costretto a scegliere indicherei i figli legittimi di Verga e Pirandello, cioè Sciascia e Bufalino. Li ho conosciuti entrambi, specie il secondo che ho densamente frequentato. Ancora oggi, rileggendoli, mi sembra di passare da un giardino a un altro: da quello geometrico e formale all’italiana a quello fantasioso e baroccheggiante all’inglese.
E i tuoi giornalisti di riferimento?
Due, pressoché sconosciuti. Si chiamavano Malin e Brunori. Venivano da Repubblica e li ho conosciuti alle Gazzette di Ciarrapico dove ho lavorato. Mi hanno insegnato a pensare il giornale anche graficamente. Malin, un grande bevitore di birra e più grande fumatore, mi diceva che un giornale va guardato prima di essere letto. Lo faccio tutt’oggi e non sempre mi sembra di vedere quadri. Quanto ai colleghi che leggo volentieri, non mi pare di vedere eccellenze. Sarà la grande professionalità che tende a uniformare tutti, ma l’impressione è che si scriva rispondendo a un manuale. Forse dev’essere così se si vuole essere davvero giornalisti.
Hai mai incontrato il giornalista Pippo Fava? Che cosa hai apprezzato in quest’uomo?
L’ho conosciuto e ho seguito da vicinissimo prima Il Giornale del Sud e poi I Siciliani. A quel tempo realizzavo servizi televisivi per una televisione privata e frequentavo la redazione e la tipografia perché stampavo un mio giornaletto che usciva ad Adrano. Peraltro ai Siciliani lavorava mio nipote, Miki Gambino, per cui ero un po’ di casa. Fava un giorno si sperticò in complimenti per i servizi televisivi che facevo e che lui evidentemente vedeva. Ammiravo in lui il fatto che avesse lasciato La Sicilia perché in disaccordo con l’editore, non immaginando che molti anni dopo avrei fatto esattamente come lui. Eppure un giorno lo vidi al bar, dove pranzava frugalmente, leggere proprio La Sicilia. Mi spiegò che non riusciva a lavorare senza aver letto il giornale di Catania. Altri tempi.
Quali sono i maggiori difetti dei siciliani? E i maggiori pregi?
I siciliani non hanno difetti o pregi. Condividono un modo d’essere, che a volte è un difetto e a volte un pregio. Per questo ci presentiamo in tre modalità, secondo se ci valiamo della sicilianità, della sicilitudine o del sicilianismo. La distinzione è di Sciascia, non mia. La sicilianità integra la coscienza di una speciale condizione anagrafica, la sicilitudine un modo d’essere dovuto “a particolari vicissitudini storiche e alla particolarità degli istituti” e il sicilianismo designa lo stato dei siciliani legati al dato di natura che li rende vittime da sempre e per sempre. Quindi la sicilianità è data da una ipertrofia dell’io collettivo che spinge a sentirsi diversi, la sicilitudine dalle ricadute che le vicende storiche e le istituzioni pubbliche determinano in un preciso periodo e il sicilianismo discende da una vieta e corriva forma di vittimismo di cui i siciliani soffrono per loro costituzione.
E’ vero che le donne siciliane sono molto “possessive”?
Il mitologema della Lupa verghiana non è isolato. Patti e Capuana hanno dimostrato questo tipo di donna. Guttuso le ha dato un aspetto e a Siracusa fa ancora bella mostra la Venere Anadiomene che stregò il parigino Maupassant. Io però preferisco identificare la donna siciliana con la Malena di Tornatore: sensuale e poetica più che possessiva.
La bellezza salverà il mondo ha scritto uno scrittore russo… Puoi commentare questa frase?
Dostoevskij ha dimenticato di aggiungere una condizione: quando c’è la bellezza. Vale quanto diceva Sciascia: tutti i nodi vengono al pettine, quando c’è il pettine. La bellezza potrebbe salvare il mondo se però la bontà le dà una mano insieme con la probità. Da sola la bellezza è un esornativo. Come tale può salvare non il mondo né l’umanità ma molti uomini sì. Un po’ come la fede: che non arriva senza la grazia, la quale, ci dice San Paolo, è un dono di Dio. Allora è il mondo che deve darci la bellezza come fosse una grazia divina. Ma vedo che invece è la bruttezza che riceviamo. Anche quella naturalistica e artistica, nonché letteraria.
Tu hai ricevuto moltissimi premi. A quali ti senti più legato e perché?
Al più piccolo di tutti, il Premio Ibla, che non so se danno ancora a Ragusa. L’ebbi per un’inchiesta giornalistica sulla sanità. E mi fece piacere perché in sala erano presenti tutti quelli che nell’inchiesta erano additati come responsabili del suo cattivo stato. Mi ricordo le facce.
Nei tuoi libri c’è tanta Sicilia, tanta saggezza e tanta cultura. A quale libro ti senti più legato?
I cancelli di avorio e di corno, non ho dubbi. Uscì da Sellerio nel 2007. E’ stato quello che ha venduto di meno, tuttavia piacque molto a Elvira Sellerio, sin dal titolo. Fu entusiasmante cercare una definizione di letteratura attraverso le fenomenologie del mondo. Debbo dire che non ci riuscii.
Come sarà la Sicilia tra 10 anni?
Avrei detto con Borsellino che diventerà bellissima, se questa profezia non fosse finita a fare da indebito slogan politico ed elettorale. Se continua così diventerà invece bruttissima, ma se cambia potrebbe diventare il migliore dei mondi possibili. Ma come dovrebbe cambiare? E chi dovrebbe cambiarla? Io sono pessimista. Nel 2012 ho scritto un romanzo, I sette giorni di Allah, in cui immagino che la Sicilia possa tornare terra islamica come è stata per due secoli. E’ quello che vuole l’Isis. Non credo nei cambiamenti. Nel Gattopardo, che teorizza l’immobilismo, la frase chiave non è il noto ritornello del cambiare tutto per non cambiare niente, ma quanto pensa Angelica di fronte al rischio che un discorso di Cavour possa influire sulla sua vita e mutarla: “Noi avremo il furmento e questo ci basta”. Il “furmento”, cioè il frumento, è il signum indiviationis di una condizione intollerante ai cambiamenti.
Qual è l’ultimo libro che hai letto e l’ultimo libro che hai scritto?
Sono così onnivoro che non sono mai riuscito a leggere un libro per volta, tranne forse Pinocchio che mi atterrì. Posso dire gli ultimi. Che cos’è la scienza di Carlo Rovelli e La trama segreta del mondo di Giulio Guidorizzi. Libri usciti non proprio ieri. Ma non seguo le mode e lo sconsiglio vivamente. Quanto alla mia ben più modesta attività, sto ultimando il terzo episodio della serie catanese di cui ti dicevo. Dovrebbe uscire a Pasqua. Ma sono in uscita altri due romanzi che andranno a completare la trilogia delle fedi: dopo quello sull’islamismo ne uscirà uno sul paganesimo e un terzo sul cristianesimo, anch’essi come il primo, piuttosto dottrinari.
Cosa pensi della mafia e di come viene raccontata sullo schermo? Ne hai parlato in un libro…
Ne ho scritto in La scoperta della mafia, è vero: romanzo nel quale un milanese si ritrova in Sicilia preda di un affare mafioso che non riconosce come tale – a significare come la mafia sia indistinta, anguillare, indefinibile. Oggi più di ieri. Se ne parla sempre meno, come se fosse scomparsa o si fosse ritirata nei suoi covi al pari di un esercito sovversivo nelle caserme. Temo invece che il silenzio sia dovuto a uno stato di prosperità di Cosa nostra e a un cambiamento significativo di profilo: più basso, meno ambizioso. Per questo la ‘ndrangheta l’ha superata nel reating mondiale. La mafia pensa oggi in piccolo mentre la ‘ndrangheta è diventata quella che era la mafia, più internazionale. Ma il cinema è rimasto legato ai vecchi stereotipi e ci propone e propina una mafia dominatrice e una ‘ndrangheta ancillare, come nell’ultima serie Tv ambientata in Calabria. Non credo che nella realtà sia più così.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Leggere. E ogni tanto scrivere. Non sono mai stato un tipo ambizioso.
Dostoevskij ha dimenticato di aggiungere una condizione: quando c’è la bellezza. Vale quanto diceva Sciascia: tutti i nodi vengono al pettine, quando c’è il pettine. La bellezza potrebbe salvare il mondo se però la bontà le dà una mano insieme con la probità. Da sola la bellezza è un esornativo. Come tale può salvare non il mondo né l’umanità ma molti uomini sì. Un po’ come la fede: che non arriva senza la grazia, la quale, ci dice San Paolo, è un dono di Dio. Allora è il mondo che deve darci la bellezza come fosse una grazia divina. Ma vedo che invece è la bruttezza che riceviamo. Anche quella naturalistica e artistica, nonché letteraria.
Tu hai ricevuto moltissimi premi. A quali ti senti più legato e perché?
Al più piccolo di tutti, il Premio Ibla, che non so se danno ancora a Ragusa. L’ebbi per un’inchiesta giornalistica sulla sanità. E mi fece piacere perché in sala erano presenti tutti quelli che nell’inchiesta erano additati come responsabili del suo cattivo stato. Mi ricordo le facce.
Nei tuoi libri c’è tanta Sicilia, tanta saggezza e tanta cultura. A quale libro ti senti più legato?
I cancelli di avorio e di corno, non ho dubbi. Uscì da Sellerio nel 2007. E’ stato quello che ha venduto di meno, tuttavia piacque molto a Elvira Sellerio, sin dal titolo. Fu entusiasmante cercare una definizione di letteratura attraverso le fenomenologie del mondo. Debbo dire che non ci riuscii.
Come sarà la Sicilia tra 10 anni?
Avrei detto con Borsellino che diventerà bellissima, se questa profezia non fosse finita a fare da indebito slogan politico ed elettorale. Se continua così diventerà invece bruttissima, ma se cambia potrebbe diventare il migliore dei mondi possibili. Ma come dovrebbe cambiare? E chi dovrebbe cambiarla? Io sono pessimista. Nel 2012 ho scritto un romanzo, I sette giorni di Allah, in cui immagino che la Sicilia possa tornare terra islamica come è stata per due secoli. E’ quello che vuole l’Isis. Non credo nei cambiamenti. Nel Gattopardo, che teorizza l’immobilismo, la frase chiave non è il noto ritornello del cambiare tutto per non cambiare niente, ma quanto pensa Angelica di fronte al rischio che un discorso di Cavour possa influire sulla sua vita e mutarla: “Noi avremo il furmento e questo ci basta”. Il “furmento”, cioè il frumento, è il signum indiviationis di una condizione intollerante ai cambiamenti.
Qual è l’ultimo libro che hai letto e l’ultimo libro che hai scritto?
Sono così onnivoro che non sono mai riuscito a leggere un libro per volta, tranne forse Pinocchio che mi atterrì. Posso dire gli ultimi. Che cos’è la scienza di Carlo Rovelli e La trama segreta del mondo di Giulio Guidorizzi. Libri usciti non proprio ieri. Ma non seguo le mode e lo sconsiglio vivamente. Quanto alla mia ben più modesta attività, sto ultimando il terzo episodio della serie catanese di cui ti dicevo. Dovrebbe uscire a Pasqua. Ma sono in uscita altri due romanzi che andranno a completare la trilogia delle fedi: dopo quello sull’islamismo ne uscirà uno sul paganesimo e un terzo sul cristianesimo, anch’essi come il primo, piuttosto dottrinari.
Cosa pensi della mafia e di come viene raccontata sullo schermo? Ne hai parlato in un libro…
Ne ho scritto in La scoperta della mafia, è vero: romanzo nel quale un milanese si ritrova in Sicilia preda di un affare mafioso che non riconosce come tale – a significare come la mafia sia indistinta, anguillare, indefinibile. Oggi più di ieri. Se ne parla sempre meno, come se fosse scomparsa o si fosse ritirata nei suoi covi al pari di un esercito sovversivo nelle caserme. Temo invece che il silenzio sia dovuto a uno stato di prosperità di Cosa nostra e a un cambiamento significativo di profilo: più basso, meno ambizioso. Per questo la ‘ndrangheta l’ha superata nel reating mondiale. La mafia pensa oggi in piccolo mentre la ‘ndrangheta è diventata quella che era la mafia, più internazionale. Ma il cinema è rimasto legato ai vecchi stereotipi e ci propone e propina una mafia dominatrice e una ‘ndrangheta ancillare, come nell’ultima serie Tv ambientata in Calabria. Non credo che nella realtà sia più così.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Leggere. E ogni tanto scrivere. Non sono mai stato un tipo ambizioso.