Giuseppe Maurizio Piscopo
Margot Pucci si laurea a Palermo nel 1976. Il padre la vuole architetto, ma la sua creatività si esprime e concretizza quando intraprende l’attività di grafica pubblicitaria. Nel frattempo la sua natura irrequieta e poliedrica la porta ad interessarsi di tutto quell’altro che la circonda. Si diploma all’Istituto di Formazione Politica “Pedro Arrupe”. Consegue il Cambridge English First(FCE) facendo poi pratica della lingua all’estero. Nel 2012 viene selezionata e frequenta il laboratorio di narrativa della Rai /Eri, Il libro che non c’è. E’ nipote di un grande poeta e scrittore palermitano Vanni Pucci che meriterebbe un convegno di studi allo Steri nell’anno di Palermo capitale della cultura.
In questa intervista Margot ci fa riflettere e sognare allo stesso tempo.
Come si diventa architetto e che cosa fa di bello un architetto a Palermo?
Semplice ma non troppo! Cinque anni di corso di laurea, belli tosti, e un esame di abilitazione all’esercizio professionale, tosto pure quello. Ma ai tempi in cui mi sono laureata era molto difficile fare l’architetto. Sto parlando degli anni ’70. Non c’erano concorsi, che è la via idonea per mettere in pratica le competenze acquisite e confrontarsi con gli altri. Era la stagione degli appalti. Tutti i progetti venivano affidati a geometri o a ingegneri. L’architetto era considerato frivolo e dispendioso. Infatti basta guardare i palazzi costruiti dall’epoca del sacco di Palermo in poi per rendersi conto di come non ci sia stato buon gusto, innovazione e armonia del nuovo con l’antico. Così un architetto finiva per fare l’impiegato al Comune, l’insegnante o l’arredatore. Io mi sono rifugiata nella grafica pubblicitaria, che era un campo che mi piaceva molto. Per questo mi dichiaro “architetto pentito”.
Di bello faccio tutte quelle cose che fanno quelle anziane signore che si sono ribellate all’oramai.
Sono sempre attratta dallo sperimentare cose nuove. È una mia caratteristica. Ho sempre preferito imparare piuttosto che insegnare. Tant’è che ho evitato con cura di fare concorsi e abilitazioni all’insegnamento. Non volevo trovarmi di fronte ad una scelta forzata.
Lei ha molti interessi e sa guardare la realtà con una certa ironia. Da dove nasce questo suo modo di guardare le cose?
Per questo, che ritengo sia una dote naturale, devo dire grazie a mio padre e ai geni che mi ha trasmesso. Lui era un uomo di straordinaria intelligenza e come le persone intelligenti era dotato di un grande senso dell’umorismo. Il mio modo di guardare le cose l’ho ereditato da lui, con il quale ci scambiavamo opinioni e pensieri e soprattutto battute. Ridevamo molto insieme. E devo dire che anche lui, come me, aveva molti interessi. Dipingeva, scriveva per il teatro (io gli facevo da segreteria, battevo a macchina le stesure dei suoi copioni), era un appassionato studioso di scienze naturali e anche campione italiano di scacchi. Purtroppo però a scacchi non so giocare.
Sono rimasto veramente colpito dalla lettera al ragioniere Di Giovanni, esiste veramente la moglie del ragioniere o è un suo personaggio da teatro?
No, la signora Zancanaro non esiste. È stata una mia invenzione. Ma tutte le casalinghe palermitane sono un po’ signora Zancanaro e il problema della biancheria stesa che viene sporcata da quello che arriva dalla noncuranza, e certe volte dagli spregi, degli inquilini dei piani superiori, è un problema universale. E poi, chi non ha avuto una discussione con i condomini? Quello che ho voluto raccontare è il modo palermitano con cui si litiga, che è sicuramente diverso da come litigano nel resto del mondo. Sicuramente più sanguigno.
Stendere i panni è diventato veramente faticoso?
Più che faticosa è diventata un’attività che prende troppo tempo, e tempo oggi ne abbiamo veramente poco. Facciamo troppo e tutto di corsa. Anche stendere i panni, che era un’arte tramandata da madre in figlia, oggi è sempre più affidata alle asciugatrici elettriche. Quando ero bambina, andavamo a villeggiare in campagna e io ero affascinata da come venivano svolte le faccende di casa. Per quanto riguardava il bucato, le massaie (termine ormai obsoleto!) facevano una doppia stesa dei panni. La prima consisteva nell’adagiarli ancora insaponati sulla terra per lasciarli smacchiare da quella che è la candeggina naturale: il sole! Poi venivano sciacquati e stesi nuovamente, stavolta su fili di acciaio tenuti da pali conficcati nel terreno e allestiti all’uopo. Era bello vedere sventolare queste bandiere bianche e gioiose dietro le quali noi bambini ci nascondevamo.
Come era da bambina, quali ricordi conserva?
Venivo definita ribelle. Ero estroversa e contestatrice. Giocavo poco con le bambole. Preferivo giocare a indiani e cow boy con un bambino del piano di sotto. Più di una volta sono finita al pronto soccorso per farmi cucire qualche occhiello sul sopracciglio e avevo sempre le ginocchia sbucciate. Non è che adesso sia cambiata molto. Certo, non gioco più a Indiani e Cowboy ma faccio Tajiquan e ballo il tango.
Perché è quasi impossibile vivere nei condomini palermitani e non solo?
Questo fa parte dell’indole del palermitano che non è capace di condivisione e quindi di una sana e proficua convivenza. Il mondo del palermitano finisce sulla soglia della porta di casa. Già il pianerottolo diventa zona non degna di cura perché di tutti. E per di più rivendica regole che sono valide solo per l’altro e mai per sé. Un po’ come quando si trova a guidare in mezzo al traffico. Questo è anche il motivo per il quale non reggono le società. C’è un detto a tal proposito che la dice lunga: “I società s’hannu a fari di un nummaru dispari e cchiù nicu di tri” che tradotto vuol dire che è meglio non fare società con nessuno. Il palermitano è decisamente un individualista. Ma per fortuna i ragazzi di oggi la pensano in maniera diversa.
E’ vero che i palermitani trovano la parte tragica delle situazioni e ridono poco di loro stessi?
Credo proprio di sì. D’altro canto la letteratura e il teatro popolare siciliano lo confermano. Basta leggere Pirandello o Verga o assistere a una commedia di Vanni Pucci o Martoglio. E poi se ci fa caso, nella lingua siciliana (la chiamo lingua perché grazie a Camilleri e alle fiction televisive sulla mafia, il siciliano ha finito per non essere più un dialetto), nella lingua siciliana, dicevo, manca il tempo futuro. Quando si parla di qualcosa che deve avvenire si usa il tempo presente. Questo per una sorta di scaramanzia: Si Diu voli! Qui il senso di tragedia incombente.
Qual è il maggiore difetto dei siciliani?
Ahimè non uno, ma un mix fatto di Indolenza, pigrizia e negligenza che sono il risultato del loro pessimismo storico il cui leitmotivè” Ma cu mu fa fari? “.Pessimismo che ha generato rassegnazione e sottomissione allo straniero. Ma forse c’è in gioco anche la mancanza di fiducia in sé stessi. Risultato? I siciliani non hanno saputo prendere in mano il destino della propria terra e delle bellezze ineguagliabili di cui è ricca. Ma perché sto parlando alla terza persona plurale? Devo includere anche me quindi consideri la risposta alla prima persona plurale.
Ed il maggiore pregio?
A questa domanda posso rispondere senza pensarci: la generosità.
Che cos’è esattamente il libro che non c’è?
Il libro che non c’è è un laboratorio di scrittura creativa promosso dalla Rai Eri, la casa editrice della Rai, che ogni anno pubblica un bando di selezione per ammettere un numero chiuso di partecipanti. Bisogna mandare un curriculum, la motivazione per la quale si vuole partecipare e uno scritto. Si chiama il Libro che non c’è perché non è prevista una pubblicazione finale. Io sono stata selezionata nel 2012 e posso dire che è stata un’esperienza fantastica. Il laboratorio si svolge in via Teulada, presso una delle sedi Rai. Ho volato per tre mesi tra Palermo e Roma ogni settimana, ma ne è valsa la pena.
Mi può parlare brevemente di Vanni Pucci, suo nonno. Come mai non c’è una strada dedicata al famoso poeta a Palermo?
Devo dirle che la via Vanni Pucci c’è. È dalle parti di Via Scalea. Sono dell’idea che meritava una collocazione più visibile ma meglio che niente. D’altro canto mio nonno è morto di vecchiaia all’età di 87 anni. Se fosse morto ammazzato dalla mafia forse avrebbe avuto l’onore di una strada più centrale. Perdoni l’amara riflessione. Detto questo, parlare “brevemente” di Vanni Pucci è impossibile ma ci provo. Quello che posso dirle è che era un genio. Era un poeta, uno scrittore, un pittore, un drammaturgo. E la cosa straordinaria è che era che era ugualmente ed eccellentemente dotato per ognuna di queste arti. Le sue opere teatrali, agli inizi del ‘900, oltre ad essere portate nei palcoscenici di tutta Italia, hanno varcato i confini e sono approdate in Egitto, in Venezuela e in America. I suoi libri per le scuole elementari, scritti e illustrati da lui, sono stati adottati nelle scuole di tutta Italia per moltissimi anni. E qui mi fermo perché non basta questa intervista per centrare la personalità, il valore di Vanni Pucci, e anche la sua onestà intellettuale, la dirittura morale e la generosità. Nonno Pucci come lo chiamavo io, è stato un nonno imponente. Uno di quei nonni che hanno un ruolo importante per la formazione e l’educazione dei nipotini. Ma se vuole saperne di più potrà visitare il sito che ho progettato per lui: www.vannipucci.it
Lei ha raccontato che la sua professoressa non credeva nelle sue qualità. Cosa è successo?
È vero. Lo ricordo ancora con una certa rabbia. Ero troppo giovane e ancora poco attrezzata per progettare una difesa e così incassavo e la rabbia montava. Lei non credeva che i temi che io portavo da casa fossero fatti da me. Forse non riusciva a darmi fiducia perché in classe ero una delle più vivaci e chissà nella sua testa di professoressa di lettere di quel tempo, nel quale imperavano stereotipi e pregiudizi, gli alunni potevano essere solo di due specie: calmi perchè secchioni oppure esuberanti ed estroversi perché poco studiosi.
E semu in carrozza cu cantaru m’brazza. Lei nel racconto sei piccoli palermitani racconta uno spaccato di una Palermo che non esiste più tra taxi e carrozze. E’ una storia vera quella dei ragazzi che andava alla scuola media Garibaldi in taxi?
Sì. È una storia vera. È la mia storia. E l’ho voluta raccontare proprio per descrivere la mia Palermo. Quella di quando ero bambina e che oggi non c’è più. Non aggiungo altro perché è tutto raccontato, appunto, in Sei piccoli palermitani, uno dei racconti di Palermo, non vorrei contraddirti.
Palermo è una città molto bella ma che è stata sventrata, sono finiti i giardini, le ville. E i palermitani non si sono ribellati abbastanza allo scempio che è avvenuto con il sacco di Palermo?
Purtroppo no! Non si sono ribellati. Stiamo parlando del periodo dell’inurbamento. C’era bisogno di alloggi. Contemporaneamente i proprietari delle ville liberty di Viale della Libertà e via Notarbartolo, forse costretti dai costi di mantenimento onerosi o chissà, magari da controverse questioni di eredità, hanno acconsentito a vendere. Se mettiamo tutto questo insieme alla scelleratezza di un sindaco e della sua giunta e all’indolenza dei cittadini palermitani, abbiamo la risposta che purtroppo è ancora oggi sotto gli occhi di tutti.
Quali sono secondo lei le maggiori contraddizioni di Palermo?
È presto detto. Palermo ha ottenuto il titolo di Capitale dei giovani 2017 ma nello stesso tempo si registra un tasso di dispersione scolastica del 40% che è il più alto tasso di disoccupazione giovanile. Per la sua disponibilità all’accoglienza, è stata proclamata Capitale italiana della Cultura2018 ma nello stesso tempo è la terza città d’Italia per il numero di senzatetto. Ospita la Biennale Manifesta ma negli ultimi due anni hanno chiuso oltre 3.000 esercizi commerciali.
Che cosa succederà con Palermo capitale della Cultura?
Con uno scenario come quello appena ricordato è complicato ipotizzare cosa succederà. Suppongo che, in un modo o nell’altro, ce la caveremo. Ma quello che posso dirle è che ci siamo assunti una grossa responsabilità. È in gioco la nostra reputazione.
Da architetto cosa pensa delle periferie di Borgo Nuovo, Bonagia, l’Acqua Santa, lo Zen?
Credo che per Palermo non si possa più parlare di periferie. Perché se noi analizziamo l’essenza del termine periferia veniamo riportati ad una accezione geografica, quindi un centro dinamico e operoso in contrapposizione a delle aree lontane e marginalizzate come quelle che ha citato lei: Quartiere San Filippo Neri (Zen per intenderci) Borgo Nuovo eccetera. Ma quando si parla di centro e di periferia si deve attribuire anche un’accezione sociale. E qui vediamo che qualche buona intenzione c’è stata ma non si è mai riusciti a portare a termine i progetti varati e soprattutto non si sono coinvolti i palermitani. E quando questi hanno chiesto la parola sono rimasti inascoltati(vedi la protesta degli alberi di Piazza Castelnuovo tagliati per i lavori del tram!). Tornando al concetto di periferia, possiamo dire che le periferie esistono a patto però che esista un centro. E il centro di Palermo è ormai scivolato verso il degrado, quindi è diventato anch’esso una periferia.
Quando scrive cosa succede nella sua mente, quando trova l’ispirazione, in quali ore del giorno?
Penso per immagini. La mia mente diventa un libro illustrato che mi fa vedere fatti e personaggi. Il passo successivo è la voglia di raccontare questi fatti e questi personaggi. È un’esigenza irrinunciabile e pressante. E poi devo confessarle che mi sento molto più a mio agio a esprimermi con la penna piuttosto che con la voce. Il motivo è che quando scrivo ho più tempo per formulare il concetto, scegliere le parole giuste, gli aggettivi e gli avverbi appropriati (A proposito, avrà notato che ho usato correttamente la locuzione prepositiva piuttosto che? Ovviamente è una battuta!). Quando parlo, invece devo fare in fretta e io, come Milan Kundera, amo la lentezza. Riguardo al momento della giornata che prediligo per scrivere è senz’altro la mattina appena sveglia; quando c’è silenzio e il giorno ancora non si è fatto e io lo aspetto al computer con la mia tazza di caffè cercando di stanare le mie storie.
Perché gli uomini sono così violenti con le donne, prima dicono di amarle e poi le ammazzano, cosa non hanno ancora capito gli uomini delle donne?
Io faccio parte dell’altra metà del cielo e, siccome questi comportamenti perversi, scellerati e infami non hanno una ragione comprensibile e meno che mai condivisibile, posso solo avanzare delle ipotesi. Indagherei comunque sul passato di questi maschi (non posso chiamarli uomini!), su come hanno vissuto la loro infanzia e, soprattutto sullo stato della loro salute mentale. Non saprei dire altro… è un problema sul quale mi sono soffermata giusto il tempo di indignarmi all’atto della diffusione della notizia. Io, per fortuna, nella mia vita non ho incontrato maschi. Ma uomini. E per lo più gentiluomini.
La bellezza salverà il mondo?
Su questo non ho dubbi! Ma cambierei il “salverà” con un “salverebbe”. Perché la bellezza non è ancora un concetto universale. Spesso viene relegata a un bel viso, un bel corpo, un bel vestito. Mentre la vera bellezza è ovunque. Nella natura, nell’arte, nella musica, nei rapporti umani. Ed è soprattutto armonia. Certo che potrebbe salvare il mondo.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Per quanto riguarda il versante scrittura, ho appena pubblicato un libro di racconti, finito un romanzo per il quale sono in cerca di un editore e sto lavorando ad una nuova raccolta di racconti. Per il resto ho in progetto: amici, cinema, concerti, tango, palestra, bridge. Ma più di ogni altra cosa passerò molto ma molto tempo con due splendide ragazze: mia figlia e mia nipote.