Giuseppe Maurizio Piscopo
Ognuno inizia la propria giornata alla propria maniera. Nell’aprire gli occhi c’è chi guarda il cielo, chi recita una preghiera in silenzio, chi si guarda allo specchio, chi si stringe le mani forte, chi entra nella camera del bambini prima di andare al lavoro alza le coperte e li copre lasciando un bacio da lontano per non svegliarli. C’è chi entra in chiesa prima di affrontare una lunga giornata per una preghiera al Santo e chi guarda il portafoglio nel quale ritrova pochi spiccioli, un calendario profumato di barbieri con le ragazze in costume e in un lato del portafoglio le immagini di San Giuseppe messe di nascosto da nonna Carmela.
Negli anni 50 in tutti i paesi della Sicilia lavoravano molti calzolai ai quali non mancava mai il lavoro. Prima si facevano scarpe su misura, oggi le scarpe si riparano raramente. Viviamo in un mondo usa e getta, così si rifanno solo suole e tacchi.
Nel dopoguerra la gente più povera metteva i beccuzzi, erano pezzi di copertone legati ai piedi con un fil di ferro, alcuni camminavano scalzi. Prima le scarpe non si buttavano ma servivano per gli altri fratelli più piccoli.
Il mestiere veniva tramandato da padre in figlio, certe volte veniva ereditato dai nonni. Un giorno lo zio Pietrino Randazzo mi confidò quello che gli aveva detto suo padre: “O vai a scuola o impari un mestiere”. Lo zio Pietrino era il calzolaio del mio quartiere. Apriva la sua bottega alle sette in punto e svegliava tutti con una canzone. Un modo originale per dire buongiorno.
In un angolo del negozio teneva un vecchio giradischi d’occasione comprato ad un mercatino e un solo disco che imparai a memoria presto e che conosceva a memoria tutto il vicinato. Nel lato A del disco con la copertina ingiallita e impolverata dal tempo, piena di macchie nere era incisa la canzone: Le ragazze di Trieste mentre nel lato B La canzone del Piave.
Era la colonna sonora della vita di u Cannuleddru, un piccolo spazio di fronte al Cortile dei sette cortili dove sono nato. In quella bottega c’era un via vai di persone con borse, scarpe vecchie da riparare per durare una vita, donne che portavano tacchi e sopratacchi da sostituire, pezze da mettere per chiudere un buco abbastanza vistoso.
Lo zio Pietrino aveva comprato di seconda mano da un emigrato che era stato in Inghilterra una macchina che faceva i bottoni che aveva creato tanta curiosità in tutte le donne del paese. L’emigrante aveva voluto lasciare quella terra straniera perché gli mancava l’aria e si sentiva soffocare soprattutto nei giorni di festa quando aveva nostalgia della sua famiglia. Per fare i bottoni occorreva la stoffa. Con quella macchina nascevano bottoni di tutti i colori e di tutte le forme e tutte le signore sorridevano per quelle magie.
La vita nel quartiere scorreva lenta con la musica del Piave accompagnata al ritmo delle martellate del calzolaio che era vestito di bianco come un dottore. La musica era sempre la stessa tutti i giorni, tutte le ore, un moto perpetuo che durava tutta la mattinata fino alle 12,30. Poi il silenzio e la pausa pranzo. Lo zio Pietrino non amava consumare un pranzo frugale nella bottega come facevano gli altri artigiani, aveva il piacere di stare a tavola con sua moglie la zia Fifa che sapeva ricamare, cucire, fare dolci e ogni giorno puntualmente gli faceva trovare un piatto di spaghetti con la salsa fatta in casa con il profumo del basilico fresco.
Alle 14 in punto zio Pietrino riprendeva il lavoro e riattaccava il disco con il lato A Le ragazze di Trieste… La bottega chiudeva presto intorno alle 17,30. A quell’ora bisognava staccare. C’erano le prove della banda che si preparava a suonare nelle feste di paese e della provincia nella quale lo zio Pietrino suonava il bombardino.
La vita a quei tempi era un’altra cosa, si svolgeva a passo lento ed ognuno aveva più rispetto per gli altri. I bambini erano i figli di tutti. Quando ne passava uno lo zio Pietrino gli faceva festa e gli poneva la stessa domanda: ” Di cu si figliu, a cu apparteni”?. Era facile ascoltare espressioni di gioia come questa: ”Tale u figliu di Giuggia a putiara ci crisci”e pensava ai suoi figli lontani. Poi con la voce commossa aggiungeva: “Ti ho visto nascere, sono stato in chiesa al tuo battesimo. Quante volte ti ho tenuto in braccio, ti ho visto giocare da piccolo, ti ho separato mentre litigavi.
Una volta in campagna a Bargialamuni da tuo nonno ti ho fatto una naca con due corde belle forti per non farti cadere e ho sistemato una vecchia coperta in un piede d’ulivo… E tu sorridevi e ti sei addormentato mentre ti cantavo la ninna nanna che ho cantato ai miei figli che dice così: chi voli stu figliu chi chianci? Voli la naca mezzu di l’aranci. Chi voli stu figliu chi arridi? Voli la naca mezzu di l’olivi! Ma quantu ti facisti beddru, salutami to patri e portaci un dolce di Natale che ha fatto mia moglie con le sue mani”.
La zia Fifa non si stancava mai di lavorare era sempre n’chiffarata in cucina a preparare per tutti. La gente prima aveva pazienza e accettava le altre persone, le ascoltava, si immedesimava, le aiutava. Quando un calzolaio si ammalava nel mio paese gli altri calzolai venivano ad aiutarlo e si prendevano il suo lavoro per portarlo a termine e toglievano solo le spese per il materiale e non ci guadagnavano.
Poi un giorno in quello spazio di u Cannuleddru scese il buio, un buio totale. i figli dello zio Pietrino partirono alla ricerca di un lavoro al nord e all’estero ed io non li ho rivisti più. La bottega dello zio Pietrino chiuse con la sua scomparsa e con lui e per sempre svanirono tanti ricordi di vita. Le scarpe non si ripararono più e nessuno suonò più quelle canzoni che svegliavano e accompagnavano la vita del mio quartiere. Gli ultimi calzolai stanno sparendo e con loro muore un’epoca e i sogni della mia infanzia! Tutte le volte che ripasso dal Cannuleddru nel mio cuore risento la canzone: Le ragazze di Trieste. Sorrido e alzo gli occhi al cielo e mi viene la voglia di cantare…