di William Di Noto
I venti di crisi tra Iran e Stati Uniti spirano sempre più forti ma, oltre l’importante controllo geo-economico dello Stretto di Hormuz o la questione dell’arricchimento dell’uranio da parte iraniana, gioca un ruolo fondamentale la contrapposizione storica tra sciiti e sunniti, ovvero tra Iran e Arabia Saudita.
Si cerca di approfondire il tema in quest’intervista con lo studioso delle questioni medio-orientali Educatore Professionale Salvatore Falzone, autore dei libri “Nel nostro tempo: tra terrorismo e conflitto israelo-palestinese” e “L’intreccio del Medio Oriente: Israele, Libano, Palestina”.
Quanto ha influenzato l’intervento americano del 2003 in Iraq con la caduta di Saddam Hussein?
- L’intervento americano, per certi versi unilaterale del 2003, con la seconda guerra del Golfo tra USA e Iraq ha portato ad un acuirsi delle tensioni storiche riproponendo l’antica frattura tra le comunità sciite e sunnite. In particolare, con la caduta di Saddam Hussein, il quadro geopolitico è variato creando un asse tra Beirut e Teheran (la cosiddetta Mezzaluna Sciita).
L’antinomia che si è venuta a creare tra coloro che si considerano punti di riferimento del mondo arabo e musulmano come Riyad e Teheran si è manifestata nei vari teatri di guerra: in Iraq, in Siria e nello Yemen per il mantenimento della leadership nel mondo arabo e musulmano da parte Saudita o il conseguimento di un riconoscimento di potenza regionale per l’Iran.
Spesso si parla di frattura religiosa, di comunità divise tra sunniti e sciiti. Qual è questa antica frattura di cui si parla in continuazione?
- Le due visioni fideistiche dell’Islam sono il Sunnismo e lo Sciismo, ognuno con varie stratificazioni al proprio interno: la prima rappresenta l’85 % del mondo musulmano mentre la seconda rappresenta il 15 %, distribuiti specialmente nella cosiddetta “Mezzaluna sciita” ovvero Iran, Siria, Iraq, Libano. Sono presenti anche in Arabia Saudita, Kuwait, Pakistan, Afghanistan, Bahrein, Yemen.
Le origini dei due rami risalgono alla morte del Profeta Muhammad, per la scelta del suo successore. Si confrontavano due correnti di pensiero: la prima verteva sulla scelta all’interno dell’intera comunità dei credenti, Umma; la seconda, invece, riteneva che la successione doveva avvenire in seno alla famiglia del Profeta. Quest’ultimi ritengono che Alì, genero e cugino del Profeta, sia il legittimo e naturale successore.
Alla fine, la maggioranza scelse come successore, Califfo, Abu Bakr. Alì sarà il quarto Califfo, ma si trovò ad affrontare ammutinamenti interni: ne seguì una lotta tra l’esercito del Califfo Alì ed il Governatore di Damasco, Muawiya, che darà vita alla dinastia Ommayade. Nel 680 d.c. avveniva la battaglia di Karbala, con l’uccisione di Hussein, figlio di Alì, che non aveva riconosciuto il califfato di Yazid I, in carica ormai con il criterio ereditario.
La battaglia si impresse nei fedeli sciiti come “resistenza eroica” contro gli usurpatori. Il dissenso tra sciiti e sunniti verte anche sulle funzioni che il Califfo avrebbe dovuto esercitare. I sunniti considerano i Califfi non in relazione alla loro relazione speciale con Dio, ma come guida della comunità: secondo il principio che ogni credente è in grado di comprendere la verità religiosa senza bisogno di intermediari. Lo Sciismo, invece, ha una visione opposta: considera l’uomo non in grado di comprendere la verità senza la guida di persone toccate dal favore di Dio, sono gli Imam (da non confondere come coloro che “guidano la preghiera”) che guidano la comunità: senza la guida giusta l’autentico e il vero intento dell’Islam andrebbe perduto.
Da tempo si parla del “Risveglio sciita”. Di cosa si tratta? Quali sono i fatti storici che hanno maggiormente influito su questo risveglio?
- Nel corso del ‘900 il Medio Oriente è stato considerato come uno dei luoghi più “caldi” dell’intera comunità internazional: l’onda d’urto delle lotte di potere interne, le guerre arabo-israelo-palestinesi, le guerre civili in Libano e la Rivoluzione Islamica iraniana, hanno avuto un grande impatto sulle comunità sciite. Negli anni ’70, le comunità sciite subivano l’influsso dello Scià iraniano Reza Pahlavi che era un alleato degli Stati Uniti tanto da classificare il Regno del Pavone come il “gendarme del Golfo”, sia per gli interessi energetici che per il contenimento sovietico; inoltre, vi era un’alleanza con Israele, denominata “l’alleanza di periferia”.
Ma sono anche anni di fermento ideologico e politico, nei quali emerge la figura imponente e carismatica in Libano dell’Imam Musa al-Sadr, il quale fondava nel 1974, il “Movimento dei diseredati”: lo scopo era quello di mobilitare e organizzare la comunità sciita in Libano, da sempre tenuta ai margini della società.
L’approccio di Al Sadr sarà considerato di tipo nazionale ma, in seguito, l’altro esponente del clero Mohammad Hussein Fadlallah avrà un approccio in relazione agli eventi regionali: la presenza dell’OLP in Libano e la numerosa comunità palestinese nei campi profughi, l’operazione “Litani” e “Pace in Galilea” effettuata da Israele, la Rivoluzione Khomeinista in Iran e la guerra Iraq-Iran.
Si può definire la Rivoluzione islamica iraniana del 1979 come elemento centrale del “risveglio”?
- Certamente. Il primo Febbraio del 1979 segna uno spartiacque: l’Ayatollah Khomeini rientrava a Teheran, a seguito della Rivoluzione, salutato come “un novello Abramo”. Khomeini raggiunse una notorietà ben al di là dei confini iraniani. La marginalità di cui gli sciiti erano stati soggetti ora si trasformava in riscatto. L’antiamericanismo e la lotta contro Israele, classificati come il “grande satana” e il “piccolo satana”, avrebbe assunto un ruolo centrale; contemporaneamente, c’è anche la messa in discussone del ruolo dell’Arabia Saudita per la gestione dei Luoghi Sacri: non possono dimenticarsi le rivolte sciite nel paese saudita e l’assedio alla Grande Moschea della Mecca il 20 Novembre 1979, seppur da parte di un solo gruppo sunnita.
I Paesi del Golfo videro con preoccupazione la capacità attrattiva della Rivoluzione e l’espansionismo ideologico khomeinista. L’Iraq di Saddam, finanziato e appoggiato dai Paesi arabi, eccetto la Siria e con l’appoggio statunitense, si proclamava baluardo contro la Rivoluzione Islamica, attaccando nel 1980 l’Iran. Una durissima guerra che durerà otto anni.
Perchè l’intervento americano del 2003 ha riaperto o esacerbato la tensioni tra Sciiti e Sunniti, tra Iran e Arabia Saudita?
- La seconda guerra del Golfo del 2003 aveva come obiettivo un cambio di regime, che ha fatto riemergere le antiche diatribe basate su equilibrio comunitario, questione dell’autonomia curda, contesto regionale per l’assunzione della leadership tra Arabia Saudita e Iran. In fase inziale, l’Amministrazione Bush – con la gestione Bremer – decideva di sciogliere il Parto Ba’ath, che rappresentava l’ossatura istituzionale irachena e lo scioglimento dell’esercito iracheno generando la saldatura tra gruppi terroristici, gruppi di insorgenza ed ex appartenenti alle vecchie istituzioni.
In un territorio così diviso e in un continuo litigio intercomunitario, si acuiva la spaccatura tra le due maggiori comunità: in Iraq si apriva il fronte dello scontro in seno alla popolazione tra una maggioranza sciita, emarginata sotto Saddam Hussein, e una minoranza sunnita che costituiva con il rais il vertice del potere.
Il Medio oriente è un ginepraio di conflitti e problemi, pensa che si tratti solo di situazioni volute dai vari governanti locali?
- No. Il Medio Oriente è sconvolto da conflitti eterogenei, a cerchi concentrici: guerre civili interne, guerre regionali e internazionali per procura. In gioco vi è l’assunzione della leadership nel mondo musulmano, il riconoscimento di un ruolo regionale per alcuni attori e notevoli interessi economici internazionali.
Qualche settimana fa il presidente Trump, a seguito del drone americano abbattuto dagli iraniani, ha dichiarato che proprio all’ultimo aveva sospeso l’attacco militare. Pensa che sia solo un rinvio?
- L’ordine di non iniziare una guerra contro l’Iran è stato giusto. L’esperienza in quell’area mostra che ogni guerra non risolve nulla, anzi aggrava la situazione. Spero che più che un rinvio, si tratti di una scelta strategica per riaprire i canali diplomatici con l’obiettivo di trovare un punto di equilibrio per l’intera regione.