Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Povero fariseo! Tutti a criticarlo e ad esprimere giudizi sul suo modo di pregare.
In ciò che dice il fariseo, che prega stando in piedi non per mancanza di rispetto ma perché è il modo di pregare del popolo di Israele, non c’è alcuna falsità. Rispetta la legge e la osserva compiendo anche di più rispetto a ciò che è prescritto fare. Digiuna e paga le decime più di quanto gli spetta. Poi però ecco la caduta di stile: non sono come gli altri.
In realtà il fariseo non sta davanti a Dio ma al suo io. La sua parola non raggiunge se non se stesso; è un monologo non è un dialogo. È la preghiera sappiamo che è dialogo con il totalmente Altro. La preghiera di quest’uomo inizia bene, ringrazia Dio, ma poi si perde nell’auto compiacimento; si appropria dei doni che il Signore gli ha elargito lodando se stesso, disprezzando l’altro invece di amarlo e di condividere nono solo ciò che ha ma ciò che è.
Forse questa parabola Gesù la dice anche per noi: i destinatari sono alcuni che hanno l’intima presunzione di essere giusti e disprezzano gli altri. Quante volte anche noi pieni di noi stessi non diamo spazio a Dio. Io, io, solo io… parafrasando il Marchese del Grillo diciamo io so io, gli altri non sono un … nulla!
Qualche tempo fa, (tanto per cambiare) ho avuto una discussione abbastanza accesa con uno di quelli che si reputano uomini di “fede” che mi faceva partecipe di un suo ringraziamento a Dio perché non era né gay, né africano e né tanto meno albanese o rumeno o proveniente da questi paesi di zingari e soprattutto di non essere musulmano. Il suo ringraziamento continuava con l’evidenziare tutte le virtù in suo possesso compresa la sua “cattolicità” e la sua “fede” superiore (ovviamente) anche a quella del Papa. Mi chiedo, si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e poi maledire e dire male dei suoi figli? Si può lodare Dio per poi rimanere indifferenti a ciò che succede attorno a noi, o accusare i fratelli abbandonandoli nelle difficoltà della vita?
Senza umiltà, la preghiera è dell’io e non di Dio; la fiducia è in se stessi e non in Lui. Invece il Pubblicano che potrebbe essere davvero pieno di se, perché sta bene economicamente ed è alleato con il potere, prende coscienza del suo vuoto, della sua debolezza, dei suoi limiti e fa spazio a Dio, non pronunciando io ma tu.
Francesco di Assisi ci insegna come crescere nella preghiera. All’inizio della conversione la preghiera del Poverello era richiesta: “dammi fede, dammi speranza, dammi carità, dammi conoscenza”. Il dialogo continuo ha accresciuto la relazione d’amore tra egli e Dio, lo ha portato a volgere lo sguardo sull’amato e non più su se stesso: “Tu sei Santo, Tu sei forte, Tu sei grande, Tu sei altissimo, Tu sei onnipotente, Tu, Padre santo, re del cielo e della terra. Tu sei trino ed uno…”. Francesco innalza al Signore questa lode in un momento di vuoto, di solitudine e di abbandono da parte dei fratelli. Senza l’esperienza del limite, del nulla, del fallimento, difficilmente facciamo spazio a Dio. È la consapevolezza di ciò che realmente siamo che ci rende aperti all’Altro e di conseguenza ai fratelli.
Il pubblicano non spreca parole, dice ciò che è un peccatore e chi non lo è scagli per primo la pietra. Si prega non per ricevere ma per essere trasformati in Cristo.
Quanto sarebbe bello se capissimo che siamo pezzi rari, unici e che non serve tirare altri in ballo facendo inutili paragoni. Se mettiamo al centro l’io, nessuna relazione funziona neanche quella con Dio.
L’unico modo che abbiamo per confrontarci è in ciò che Dio ha sognato per noi, dobbiamo confrontarci con ciò a cui siamo stati chiamati: a diventare Cristo. Questo lo possiamo solo fare riscoprendo il nostro Battesimo e mettendoci in ascolto della sua Parola. Per essere se stessi conformandoci a Cristo, avendo i suoi sentimenti e compiere le sue gesta, sapendo far morire il nostro io per far germogliare l’amore verso l’altro. Tutto sta nel sapersi sintonizzare con Lui.
Il pubblicano che non è migliore del fariseo, torna a casa perdonato, perché si lascia amare, lascia che Dio entri nella sua vita. Capisce e nel contempo approfitta della debolezza di Dio che è amore infinito che è misericordia. Se il Signore ama ognuno di noi per ciò che siamo perché io dovrei non accettare l’altro? solo perché è diverso, solo perché chiama Dio con un altro nome? Solo perché proviene da un’altra nazione e ha la pelle un po’ più scura o perché la pensa diversamente da me? Dio non fa paragoni. È perdutamente innamorato del povero che lo invoca.
Concludo con le parole del Siracide: “La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità”