Giuseppe Maurizio Piscopo
Dopo molti anni a Favara incontro Sergio Castellana un geometra topografo, un appassionato di fotografia, un sognatore. Il padre dopo la guerra, dall’ottobre 1947 al 1978, mantenne un negozio storico. La famiglia Castellana attraverso la fotografia ha raccontato i colori, le luci e le ombre di un paese irrequieto.
C’è ancora spazio per parlare di fotografia nel mondo in cui viviamo?
Sicuramente lo spazio, nel mondo di oggi, per parlare di fotografia non manca: anzi! La fotografia, per chi sa apprezzarla ed amarla, riserva e riserverà spazi pressoché infiniti se si riuscirà a coglierne i momenti, gli attimi e le sensazioni che le cose e la natura, nello scorrere inarrestabile del tempo, ci riservano.
Qual è la differenza tra un vecchio fotografo ed un anziano farmacista?
Più che di farmacista occorre considerare lo “speziale”, così veniva chiamato nel medioevo il farmacista che si occupava della preparazione delle medicine;ebbene tra un vecchio fotografo e lo speziale, sotto un certo aspetto, non c’è alcuna differenza. Infatti ricordo come mio papà preparava periodicamente i composti chimici da utilizzare per gli sviluppi dei negativi e per le stampe su carta fotografica. Con l’ausilio di una vecchia bilancia di precisione, che tuttora custodisco gelosamente, ereditata dal mio bisnonno dott. Vincenzo Valenti, venivano minuziosamente pesati i composti chimici per ottenere gli sviluppi dei negativi ed il relativo “fissaggio” utilizzando, per quest’ultimo, il sodio tiosolfato tradizionalmente chiamato iposolfito di sodio, la cui funzione era quella di rimuovere il bromuro d’argento che altrimenti avrebbe irreparabilmente annerito la foto con l’esposizione alla luce.
Chi è oggi un fotografo?
Occorre distinguere tra fotografo professionista e fotografo dilettante. Il fotografo professionista è colui che svolge la propria attività per lavoro seguendo dei principi fondamentali quali l’etica e la soddisfazione del cliente; ma può anche essere un artista nel senso che sfrutta la propria immaginazione per veicolare, attraverso le immagini, il proprio pensiero, le proprie sensazioni nel sapere cogliere gli attimi, le luci, le ombre e le sfumature. Il fotografo dilettante è, invece, colui che per passione, svago o per puro divertimento si diletta, appunto, a fotografare per immortalare o documentare dei ricordi.
Puoi descrivere il negozio di tuo padre e tracciarne un ricordo…
La sede lavorativa dove papà ha esercitato la propria attività era ubicata in Via Luigi Pirandello al civico 74, nei pressi dell’incrocio di Via Bersagliere Urso; all’ingresso c’era una vetrina che in parte si estendeva anche all’interno dove venivano esposte delle foto da posa, realizzate nello studio,ritraenti dei clienti che, naturalmente, avevano dato il proprio consenso. In questo locale, che era adibito anche a sala d’aspetto, c’era anche una scrivania ed una vetrinetta contenente alcuni prodotti di vendita quali rullini, portaritratti, cornici in bronzo argentato e macchine fotografiche. Ricordo tra queste la Comet e la famosa Koroll II Bencini di cui se ne vendevano a decine; infatti quasi settimanalmente il corriere consegnava una cassa contenente, se non ricordo male, 25 fotocamere.
(La Koroll II aveva avuto un grande successo sia perché abbastanza economica, quindi alla portata di tutti, sia perché tecnicamente innovativa e maneggevole per quei tempi (anni ’60 del secolo scorso); con una pellicola formato 120 permetteva di scattare 24 foto da 30x45mm, mi pare avesse un otturatore a 3 velocità, 1/30, 1/60 e 1/125, oltre all’apertura fissa per pose (B) e un obiettivo 55mm f/8).
Dalla sala d’aspetto/negozio si accedeva allo studio transitando da un piccolo corridoio dove, in una rientranza, era collocato uno specchio con una bellissima cornice in legno magistralmente intarsiata a mano dal mio nonno paterno. In questo disimpegno, oltre allo specchio, era fissato, su una paretina laterale, un attaccapanni con appesi una camicia bianca, due o tre cravatte di cui una nera, una giacca nera e, in una mensolina, un pettine, una spazzola per abiti ed un barattolo di brillantina. Lo specchio, il pettine, la spazzola e la brillantina erano a disposizione dei clienti per potersi dare gli ultimi ritocchi prima della posa, mentre la camicia, le cravatte e la giacca, per le persone meno abbienti che, data la povertà che ancora regnava a Favara nonostante in pieno boom economico, non potevano permettersi.
Superato il corridoietto, ecco la sala adibita a studio fotografico; al centro della sala stazionava la fotocamera da studio montata su un pesante supporto, credo in ghisa, munito di 3 ruote per gli spostamenti di posa. Il dispositivo era del tipo a “banco ottico” nel senso che le diverse parti erano montate su una piccola slitta dove la parte anteriore e quella posteriore erano collegate tramite un soffietto a fisarmonica in modo che si potesse variare la geometria della macchina per ottimizzare la messa a fuoco e/o correggere le distorsioni prospettiche dell’immagine. Infatti tutti i movimenti erano effettuati in maniera micrometrica, in modo da ottenere la massima precisione negli spostamenti. Nella parte anteriore era montato un otturatore azionato da una pompetta pneumatica nel cui punto di massima apertura chiudeva un contatto elettrico che serviva per azionare il “lampo” (flash). L’otturatore, che era intercambiabile, incorporava anche il diaframma per la regolazione della quantità di luce che occorreva quantificare in funzione della sensibilità del supporto fotosensibile e delle condizioni di luce, essendo la velocità dell’otturatore fissa. Nella parte posteriore, a mo’ di ghigliottina veniva inserito un vetro smerigliato dove si proiettava l’immagine capovolta del soggetto ripreso; ciò serviva per inquadrare la posa ed effettuare le necessarie regolazioni di messa a fuoco e correggere le distorsioni. Successivamente il vetro smerigliato cedeva il posto alla lastra per potere essere impressionata. La zona di posa era costituita da uno sfondo che all’occorrenza poteva essere bianco piuttosto che formato da una serie di tendaggi per potere rappresentare ambienti diversi. Attraverso un proiettore particolare lo sfondo, a volte, era arricchito da sfumature che variavano in base ad una matrice forata che veniva interposta tra la lente e la lampada. Sui lati stazionavano due finti muretti ed una torta in gesso, artisticamente realizzati e decorati da un artigiano di Palermo, utilizzati per valorizzare la scena. Ricordo, che la torta era tanto perfetta che nel vederla suscitava un certo languorino e veniva utilizzata per ritrarre foto di compleanni. Sulla destra c’era la cabina dalla quale scaturiva il “lampo” pilotato dall’otturatore.
Quest’ultima era una sorta di camera costruita interamente di legno dove si accedeva da una porticina al di là della quale una scaletta con circa 8 gradini conduceva in un piccolo soppalco la cui parete prospiciente lo studio era a vetri opachi. Longitudinalmente alla vetrata era fissato un asse di legno al centro del quale erano avvitate due lamine di rame collegate con un cavo elettrico. Sopra le due lamine ramate veniva posta una striscia di stagnola, ricavata dai pacchetti di sigarette di cui papà ne consumava almeno due al giorno, e su questa veniva cosparsa una modestissima quantità di polvere nera, nient’altro che un composto chimico a base di nitrato di potassio, zolfo ed una discreta quantità di carbone di legno. Al momento dello scatto, come precedentemente detto, l’otturatore chiudeva il contatto elettrico e, avvenendo un cortocircuito, la stagnola fondendo incendiava la polvere pirica (magnesio) che nella reazione emetteva una gran quantità di luce bianchissima, parecchio calore ed abbastanza fumo smaltito attraverso una canna fumaria collegata con l’esterno.
Entrando nello studio di posa, attraverso il corridoietto, sulla destra, ricavata nel sottoscala, era stata creata la camera oscura per lo sviluppo dei negativi e per caricare il cliché della macchina da presa. In questo sgabuzzino, rigorosamente buio tanto che non filtrava neanche dalla porticina un fil di luce, ricordo che papà passava delle ore chiuso a sviluppare negativi sia in lastre di vetro che in cellulosa, i cosiddetti rullini, che nelle giornate successive le principali festività arrivavano ad essere centinaia; infatti con l’avvento della Koroll II tantissimi si improvvisarono fotografi dilettanti producendo una grandissima quantità di scatti che, naturalmente occorreva sviluppare e stampare. Uscendo dalla camera oscura, sul lato destro, c’era una vasca della capacità di circa 200 litri dove avveniva il lavaggio dei negativi e della carta stampata con acqua corrente. Attigua alla vasca, una piccola rampa di scala che, attraverso una porta, convogliava sul vano scala, con accesso dal cortile Bongiorno, permettendo di raggiungere i 2 piani superiori, adibiti a residenza. Sul lato sinistro della sala di posa attraverso un piccolo disimpegno si accedeva alla camera oscura per lo sviluppo e la stampa delle foto (positivi) e al laboratorio dove trovavano sistemazione un “ritocchino” dalla forma di un piccolo scrittoio con inserito una specie di leggìo retro illuminato con un foro al centro dove, attraverso un cliché, venivano inseriti negativi di vario formato (6×9 – 10×15 – 13×18) per l’eventuale ritocco effettuato, con l’ausilio di una grossa lente di ingrandimento, con grafite di media durezza.
In un altro angolo trovava posto un dispositivo chiamato smaltatrice che serviva per asciugare e rendere lucide le foto dopo il lavaggio. Inoltre, quasi al centro della stanza, un grande tavolo da lavoro utilizzato per molteplice attività quali la rifilatura dei bordi delle foto, l’imbustàggio, la colorazione di foto particolari, lo smistamento ecc. Nella parete di fronte la finestra, che dava nel cortile Bue, un capiente armadio contenente prodotti chimici, lastre e carte verginidi fari formati, fotocamere portatili quali 2 Rolleiflex, 1 Rolleicord, 1 Leica IIIc, 2 flash Braun con batterie al piombo, 1 cinepresa Bencini 8 con carica a molla, 1 proiettore 8mm Eumig Mark-501, 1 cinepresa sonora Canon Super 8 modello 1014 autozoom con possibilità di dissolvenza sia incrociata che in apertura e chiusura, 1 proiettore sonoro Super8 Noris modello Norisound 120, 1 moviola Hanimex E300, illuminatore da 1.000W con alette, una macchina per scrivere Olivetti Lettera 32 e una serie di accessori e pezzi di ricambio di vario genere. Infine, nella parete destra, oltre il ritocchino, un piccolo scaffale e, sotto la grande finestra, una stufa a legna progettata e costruita da papà che, nelle giornate rigide d’inverno, riusciva a dare sufficiente tepore alla stanza e alla camera oscura dove maggiormente si svolgeva l’attività lavorativa. Nella seconda camera oscura, utilizzata per la stampa delle foto, trovavano posto, in una parete, un grosso ingranditore chiamato “siluro” per le stampe di grande formato e, di lato, un altro ingranditore per le stampe dei rullini e di negativi di piccolo e medio formato marca Durst modello 609. A ridosso della parete più lunga il banco per lo sviluppo ed il fissaggio delle copie impresse ed un dispositivo, chiamato “bromografo”, utilizzato per la duplicazione a contatto di negativi dello stesso identico formato. Infatti molte stampe, del formato 6×9, 9×13 e 10×15, venivano stampate per semplice contatto con i negativi senza, quindi, essere ingrandite. A differenza della camera oscura per i negativi, la seconda era fiocamente illuminata da una luce giallognola che, se pur a stento, consentiva di muoversi all’interno e di potere operare liberamente.
Dalla camera oscura si poteva accedere al garage dove, oltre ad essere utilizzato come ripostiglio, custodiva la Fiat 850 del 1966 che, dopo essere stata ferma per sei giorni la settimana, quasi tutte le domeniche ci consentiva di fare dei piccoli viaggi fuori porta, in genere San Leone e Porto Empedocle, allietando il meritato e spensierato riposo settimanale.
Quando è nata la passione per la fotografia nella famiglia Castellana?
Credo nel 1927 quando, appena 14enne, papà ricevette in regalo dallo zio Ignazio Casà una fotocamera di cui, purtroppo, non ricordo il modello né le caratteristiche. Da allora papà continuò a coltivare l’interesse e la passione per la fotografia. Sul finire del 1933, appena ventenne, dopo la perdita dei genitori, si trasferì nella città di Torino sia per avvicinarsi all’unica sorella da poco sposatasi, sia per potere meglio coltivare la propria passione. Trovò subito lavoro presso la polizia ferroviaria ma ben presto si trasferì a Lavagna, in provincia di Genova, per potere studiare e, allo stesso tempo, lavorare presso il rinomato studio fotografico Chiarelli. Presso un Istituto studiò fotografia apprendendo nozioni di tecnica fotografica, elementi di ottica e soprattutto chimica fotografica. Successivamente fu chiamato alle armi. Durante la guerra venne fatto prigioniero a Dubrovnik e quando fu liberato si trasferì a Favara dove, nel 1947, aprì uno studio fotografico in Via Luigi Pirandello portando tanta innovazione, nel campo della fotografia, tanto da sbalordire la gente con le foto colorate e su tela fotosensibile. Per le sue doti e per la riservatezza, che lo contraddistinguevano, fu fotografo di fiducia presso la caserma dei Carabinieri di Favara. Amò tanto il suo lavoro da dedicare tantissime ore settimanali compresi alcuni festivi, ritagliando per se solo poche ore di riposo e svago.
Perché sono scomparsi gli studi fotografici di paese?
Man mano che le fotocamere diventarono alla portata di tutti e i servizi fotografici ebbero il sopravvento, le foto da studio non furono più una priorità e si limitarono a poche esigenze strettamente necessarie quali le foto tessere, foto ricordo in gruppi, foto in porcellana per lapidi e rarissime foto seppiate e, come già detto, su tela fotosensibile con l’effetto di un quadro dipinto. Gli studi fotografici di paese si trasformarono, quindi, in negozi con offerta di servizi fotografici esterni, stampe dilettantistiche digitali ecc.
Che fine hanno fatto i vecchi rullini?
I vecchi rullini hanno ceduto il posto al mercato digitale, ormai alla portata di tutti. Per gli appassionati sono ancora disponibili, ma solo online o in alcune grandi città, nel formato 35mm e 120. Da un articolo del Corriere della Sera del 23 giugno 2009 a firma di Alessandra Farkas, dal titolo: “Il digitale «uccide» il vecchio rullino. In pensione la pellicola delle grandi foto”, si legge: “Ritirata la Kodachrome, usata da William Eggleston e Henri Cartier- Bresson e a cui Paul Simon dedicò una canzone”.
Con la chiusura dei negozi fotografici muore la memoria storica della Sicilia: le foto di battesimi, dei giochi e dei giocattoli di un tempo, le prime comunioni, le partenze con il treno del sole, i viaggi con i piroscafi per la lontana Merica, le feste, i fidanzamenti, le serenate, i matrimoni.
Che cosa rimane di una fotografia oggi se tutto muore su Facebook nel giro di un momento?
I negozi fotografici di un tempo trasmettevano, attraverso la foto su carta, l’autenticità di ciò che era stato descritto dall’immagine. Infatti i negativi venivano custoditi gelosamente ed erano proprietà esclusiva del produttore; le riproduzioni andavano fatte con il metodo e la lavorazione come se fosse la prima stampa. Quindi le foto andavano gelosamente custodite su degli album che assumevano un valore quasi inestimabile. La loro visione andava fatta sfogliando le pagine con accuratezza rivoltando il foglio di carta velina, che separava le facciate, con delicatezza per evitare che si potessero strappare e, quindi, danneggiare le foto incollate sul cartoncino dopo la loro consultazione. In questi album fotografici troviamo la storia di ogni tipo di avvenimento: battesimi, prime comunioni, giocattoli di un tempo, le mitiche foto di stazioni ferroviarie ritraenti folle di passeggeri in partenza per il nord con le valigie di cartone legate da lacci, ed ancora le partenze per la lontana America, foto di fidanzamenti e matrimoni con le epiche “serate” che precedevano l’evento nuziale. Tutto ciò, purtroppo, si è perduto: oggi con l’avvento dei “social media” si ha la sensazione, forse di avere di più ma, nello stesso tempo pensandoci bene, non si ha niente. Troppi scatti, troppe storie, di tutto e di più; non c’è nemmeno il tempo per guardare tutto ciò che continuamente viene inviato e inoltrato; non si riesce ad assimilare la miriade di immagini trasmesse, che spesso vengono cancellate sia per liberare la memoria del dispositivo, sia perché poco o per niente interessanti. Inoltre, a differenza della foto su carta, con il digitale si riproducono e si inoltrano immagini con tanta semplicità tanto da perdere il gusto, la gioia e il piacere di apprezzarne il contenuto.
Il grande fotografo Henry Cartier Bresson guardava la vita e le cose come un entomologo…
“La fotografia permette di raggiungere l’eternità attraverso il momento”, diceva Henri Cartier Bresson, uno dei più grandi fotografi dei primi del Novecento. Bresson infatti nell’immortalare la realtà, attraverso la fotografia, riusciva a cogliere i minimi dettagli scrutando, come fa appunto un entomologo, ogni particolarità che l’occhio a volte non riesce a vedere.
Il bianco e nero ed il colore sono due modi per raccontare la realtà?
Certamente! Il bianco e nero è una illustrazione parziale della realtà e sta, a chi la osserva, ricostruirla secondo la propria memoria e immaginazione; la foto a colori è, invece, un prodotto finito.
Negli scatti sui migranti in partenza per la lontana Merica al molo di Santa Lucia il mondo si fermava al porto…
A partire dall’ultimo decennio del 1800 e per i successivi 40 anni, gli italiani, ed in particolare i siciliani, iniziarono a imbarcarsi per l’America. Nei porti d’imbarco, e di più in quello di Palermo, i fotografi ritraevano le ultime scene d’addio immortalando la nave zeppa di migranti, uomini, donne e bambini con le loro valigie di cartone e giù, l’immensa folla di parenti ed amici a salutare, tra lacrime e timidi sorrisi, sventolando variopinti fazzoletti e lanciando dal piroscafo mazzi di fiori in mezzo al mare .Erano questi, purtroppo, gli ultimi scatti e le ultime immagini, per chi sarebbe rimasto, di chi non avrebbe più toccato la propria terra.
Cosa sanno i bambini di oggi della camera oscura?
Mi è capitato di chiedere a dei bimbi se conoscessero il significato di camera oscura e la risposta è stata quasi unanime: la camera oscura viene vista come una sorta di locale tetro, angusto e incognito. I bambini, purtroppo, conoscono la fotografia tramite i cellulari e le macchine digitali e non sanno come funzionano i vecchi strumenti del mestiere.
Qual è il rapporto tra il fotografo e la morte?
Il fotografo è un “ladro” che nel momento in cui fotografa ti ruba l’anima e ti immortala. E poi che succede?
La morte può essere associata alla fotografia come riproduzione di un’idea. Guardando il nostro ritratto possiamo identificarci nello sguardo di chi ci sopravvivrà, dei nostri figli o nipoti.Ogni fotogramma rappresenta un istante rubato sottratto alla totalità e alla continuità della realtà. Attraverso le immagini fotografiche, racchiudiamo il mondo in un mutamento di una serie di scene particolari, di aneddoti, che isolano la realtà in una forma travolgente e maneggevole. Tuttavia, non solo la fotografia evoca la morte congelando il fluire, ma allo stesso tempo consente di sottrarla dalla fugacità, preservandola dall’abbandono. La peculiarità della fotografia è di essere simultaneamente falsificazione della realtà e passato. Passato, perché ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. Falsificazione della realtà, perché seppur il referente è stato davanti all’obiettivo, lo scatto rappresenta pur sempre un’interpretazione della situazione.
Le foto scattate con i cellulari sono scatti meccanici, scatti senz’anima. Cosa resterà di queste foto nel futuro. Basterà un lampo per cancellare tutto…
Nel passato, prima di scattare una foto, bisognava ponderare la scelta essenzialmente per due motivi: in primis, gli scatti erano limitati alla capacità del rullino e, quindi, anche dal lato economico occorreva prestare una certa attenzione per evitare gli sprechi; in secundis, la scena, il ritratto o il soggetto, la regolazione dei tempi dell’otturatore, la giusta apertura del diaframma e la profondità di campo dovevano essere ben calibrati affinché l’attimo colto, che è irripetibile, potesse soddisfare le aspettative dell’autore. Con l’era digitale molto è cambiato: gli scatti sono pressoché illimitati e a costo zero; l’attimo, anche se può essere paragonato ad un battito di ciglia, può essere colmato dalle cosiddette riprese a raffica con cui si possono scattare oltre 25 fotogrammi al secondo; le regolazioni, nella maggior parte dei dispositivi, sono completamente automatiche. Tutto questo è ciò che gli smartphone sono in grado di fare: scatti meccanici, senz’anima e, spesso, insignificanti, banali; quindi tutti fotografi con un’infinità di fotografie custodite qua e là di cui a volte con difficoltà ricordiamo l’esistenza e/o non siamo in grado di rintracciarle. Se da un lato il progresso e la tecnologia hanno consentito di non porre limiti all’utilizzo dei dispositivi di ripresa, di contro, la semplicità, l’economicità e gli automatismi, hanno generato una non cultura che spesso si traduce in una presunzione infondata di saper fotografare. Spesso basta una distrazione, una errata manipolazione o un virus per cancellare in un flash, è il caso di dirlo, migliaia di scatti e anni di ricordi.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuerò a coltivare l’amore per la fotografia, giacché mio padre mi ha lasciato un grande segno che non potrò certo accantonare. Non mi reputo un artista, come lo fu mio padre, ma ritengo di avere l’esperienza e le qualità per affrontare, attraverso le nuove tecnologie, un percorso fotografico all’avanguardia. Infine, ritengo, come precedentemente detto, che la fotografia ha sempre qualcosa da raccontare alle nuove generazioni, creando stupore, meraviglia e curiosità.