Quel sabato mattina, il 23 gennaio 2010, una Favara ancora sonnecchiante per la giornata pre festiva, viene svegliata di soprassalto, ancora incredula per la notizia che in pochi minuti aveva fatto il giro del paese. “E’ caduta una casa “o Carminu”, sotto c’è un’intera famiglia. L’amara realtà di una tragedia che cambierà la storia di Favara si consuma in via del Carmine dove una fatiscente palazzina si sbriciola su se stessa travolgendo un’intera famiglia. Carabinieri, Vigili del fuoco, Polizia municipale e tanti volontari scavano con le mani, li guida Giuseppe Bellavia, il volto insanguinato e la rabbia in corpo perché sotto le macerie della sua casa, ci sono i suoi tre figli, mentre lui e la moglie ne sono usciti indenni.
Sul luogo della tragedia arrivano l’arcivescovo don Franco Montenegro, il prefetto Postiglione, il sindaco Mimmo Russello, tutti con il fiato sospeso a seguire l’azione dei soccorritori. Giovanni, il maschietto, viene estratto malconcio ma vivo, per le due sorelline Marianna e Chiara Pia la sorte invece è stata crudele. Sono morte entrambe sotto le macerie di quella casa che invece le doveva proteggere. Tutta la città partecipa ai funerali che il pastore della chiesa agrigentina, in segno di protesta non celebra. Quelle delle sorelle Bellevia “è stata una morte annunciata” ha gridato con rabbia don Franco.
Una vicenda fa il giro d’Italia, è ripresa da tutti i mass media nazionali che in forza arrivano a Favara per raccontare la tragedia di via del Carmine e la morte della piccole sorelle Bellavia, ma anche per denunciare il fatto che ci sono decine, centinaia di famiglie che abitano in tuguri e case vecchie, semi diroccate, mentre nuovissime palazzine di edilizia popolare restano vuote. La Procura della Repubblica apre un’inchiesta. Si fa uno screening del centro storico favarese. I numeri che vengono fuori sono davvero drammatici, centinaia di abitazioni vengono segnate con il rosso, sono da mettere in sicurezza o meglio da abbattere. Iniziano le demolizioni, si erigono muri e si chiudono strade e interi quartieri. Ci sono anche circa 50 sfollati che vengono sistemati al Boccone del povero e in altre strutture. Favara non è più la stessa, impossibile accedere ad interi quartieri. Ma il cambiamento non è solo urbanistico. La tragedia del 23 gennaio 2010 cambia anche la storia della città. A distanza di poco più di un anno, nel marzo del 2011, la Procura della Repubblica chiude le indagini e mette sotto accusa sindaci, tecnici comunali, proprietari della casa. Senza un attimo di esitazione, il sindaco Mimmo Russello, in seguito assolto con formula piena, si dimette, arriva il commissario regionale e si va alle elezioni anticipate.
Intanto si succedono i crolli, le demolizioni, il centro storico si trasforma, dove prima c’erano case vecchie e cadenti adesso ci sono macerie o immensi spazi vuoti e recintati a seguito delle demolizioni. Arriva la casa nuova per la famiglia Bellavia grazie ad una raccolta di fondi e l’intervento della Prefettura. La vita continua anche se il cuore sanguina e non si rimarginerà mai per la perdita dei suoi due angioletti, Marianna e Chiara Pia. Il luogo della tragedia è ancora la circondato da mura e stretto da un impalcatura di ferro. Solo recentemente si è concretizzato un progetto di riqualificazione urbana con edilizia popolare e altri interventi di urbanizzazione.
A 10 anni di distanza quella cartolina purtroppo si è sbiadita, i ricordi si sono affievoliti e si allontanano sempre di più. Ma quel 23 Gennaio 2010 non può e non deve cadere nel dimenticatoio. Da lì, grazie soprattutto a diversi privati illuminati e desiderosi di riscatto, ha preso forma la rinascita di Favara che ha portato alla nascita di Farm Cultural Park, Belmonte hotel prima e Alba Palace ora, alla riapertura del Caffè Italia e al nascere di nuovi locali in piazza Cavour, alla ristrutturazione di vecchi palazzi: Cafisi, Federichello, Coppola; Quid vicolo Luna ed altri antichi scorci del centro storico. C’è bisogno di crederci ancora, di un nuovo slancio e soprattutto dell’intervento pubblico che attendiamo da troppo tempo.