Prof. Calogero Saverio Vinciguerra (docente di Pittura Accademia di Belle Arti di Firenze)
Sul recente furto dello stemma baronale dalla torre del salto D’Angiò di Aragona, del 3 Marzo 2020, sento il dovere di intervenire, per una serie di motivi.
Capita di ricordare il valore dei gioielli che costellano il nostro territorio soltanto quando questi scompaiono, accada questo per incuria o perché qualcuno (che in fondo tuttavia, probabilmente ne ha intuito più di altri il grande valore) se ne appropria indebitamente come in questo caso.
L’evento rappresenta l’ennesima mortificazione del nostro territorio, tra l’altro già fiaccato e svilito dall’incuria, dall’abbandono e dal totale disinteresse dei più; operazioni come quella del furto si rivelano fin troppo facili vista la generale assenza di adeguate misure di sorveglianza dei nostri beni culturali. Lo stemma marmoreo in questione infatti, è stato trafugato qualche settimana fa dalla facciata dello storico edificio conosciuto come “Salto d’Angiò”, nonostante fosse murato a una cospicua altezza. Il tutto eseguito, previo l’allestimento di un acrobatico “ponteggio” adatto allo scopo, con apparente disinvoltura.
Questo ignobile atto rappresenta per la storia del territorio e per la identità siciliana una perdita di straordinaria gravità, in quanto quel reperto, nonostante il passaggio dei secoli, continuava a raccontarci quello che è stato il nobile e glorioso regno di Sicilia, narrandoci molto di più di quanto crediamo di conoscere delle vicende storiche di cui la nostra terra è stata protagonista.
Lo scudo denota e conferma quell’unico e intimo rapporto tra il Regno di Sicilia e la Corona di Aragona, nella fattispecie con la sua parte catalana. Molte sono state le famiglie che hanno segnato gli accadimenti storici di Sicilia; Il Salto stesso, con tutti i terreni intorno appartenne ai Chiaramonte.
Lo stemma trafugato rappresenta una concreta testimonianza di questa famiglia, e acquisisce un valore storico altissimo, trattandosi infatti di un raro emblema riconducibile ai Chiaramonte e non ai Pujades come finora sostenuto, risalente precisamente all’arrivo della famiglia nell’Isola. Lo dimostra il fatto che l’elemento iconografico è perfettamente sovrapponibile all’emblema chiaramontano di matrice catalana: lo stesso stemma dei Chiaramonte infatti raffigura per la precisione un giglio che sormonta una collina. Cercando in queste settimane risposte ai miei interrogativi, ho potuto riscontrare quante informazioni porti con sé un “semplice” stemma di famiglia, e credo che i risultati dell’indagine da me condotta rimodellino molta della precedente letteratura relativa ai Chiaramonte.
La famiglia è sì di origine francese, ma è presente in Catalogna già dal IX secolo quando i francesi, insieme ai catalani e agli aragonesi, impedirono ai musulmani di valicare i Pirenei. Pertanto, dopo qualche generazione vediamo la famiglia perdere pressoché interamente la componente identitaria francese e rivendicare le proprie radici e la propria memoria storica come totalmente affondate nella cultura catalana, portando il nome di Claramunt.
Lo stesso succederà ai Chiaramonte arrivati Sicilia, che dopo qualche generazione proveranno una percezione totalmente siciliana e integrata di sé. Un membro della famiglia, Giovanni Chiaramonte, aveva già partecipato ai Vespri Siciliani un secolo addietro.
Prima che Martino acquisisse la Sicilia, un gruppo di nobili sediziosi a lui avversi aveva già congiurato e mirava a forme accentrate di gestione del potere nell’isola; accordo questo, stipulato in seguito al cosiddetto “Giuramento di Castronovo” (1391) che li vedeva coinvolti. Capo dei ribelli era lo stesso Andrea Chiaramonte. Martino I interverrà personalmente con l’intento di sedare la rivolta, operazione effettuata con successo e culminata nell’acquisizione del regno; procederà quindi a privare i baroni ribelli di ogni privilegio e delle proprietà in loro possesso; come detto Andrea Chiaramonte si qualificava come figura di spicco nella ribellione, e ne pagherà le conseguenze appieno, venendo decapitato. Tutti i suoi beni furono confiscati e redistribuiti tra i nobili, incluso il Salto d’Angiò. Se lo stemma è rimasto indisturbato (fino a poco tempo fa) sulla facciata del castello per secoli, è stato soltanto per il rispetto che i subentrati proprietari, di volta in volta, provarono verso Andrea Chiaramonte, e la sua famiglia; egli era pur sempre morto da leale avversario, portando avanti la sua causa fino in fondo.
La storia del feudo, e con questo di conseguenza l’annesso Salto d’Angiò, si articola in vari passaggi: dapprima Martino I, acquisito il titolo di Re di Sicilia e confiscato il bene ai Chiaramonte lo riassegnerà ai Moncada (o Montecateno), precisamente a Guglielmo Raimondo Moncada. Caduti subito in disgrazia anche i Moncada per alcune pesanti accuse a Guglielmo, da questi il territorio passerà nelle mani di De Marinis; da questa famiglia passerà poi ai Tagliavia (di Aragona), in dote a Maria De Marinis che sposerà Giovanni Aragona di Tagliavia. Questa unione consoliderà il marchesato della Favara unendolo a quello di Muxaro. La De Marinis era infatti già marchesa della Favara e portò il titolo in dote. Ad acquisire i possedimenti saranno successivamente i Naselli.
In conclusione, non ci rimane che riflettere sulle parole che Dante Alighieri ha tramandato a tutti noi nella Divina Commedia, quando il poeta incontra Re Manfredi, il quale si raccomanda allo stesso affinché renda nota a tutti la verità su come si siano svolti realmente fatti riguardanti la propria morte (Purg.III, 112-117); La raccomandazione è in senso più ampio un monito per tutti noi Siciliani figli di quella storia, affinché possiamo perseguire con maggiore attenzione un’indagine più veritiera possibile sul nostro passato.
“Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.”
Il discorso è quanto mai rilevante in un momento delicato come questo, dove rischiamo ogni giorno di perdere un tassello del ricchissimo mosaico che compone la storia della nostra terra. Sicuramente la strada da imboccare per risollevare l’onore della Sicilia è ben altra rispetto a quella che stiamo percorrendo, sta a noi virare al più presto verso il sentiero giusto.
Molti sono stati gli appelli al recupero conservativo del Salto d’Angiò caduti nel vuoto, e credo che sarebbe opportuno stabilire una volta per tutte dei vincoli che garantiscano la tutela sul sito e una presa di coscienza dei cittadini e delle istituzioni per preservarlo e valorizzarlo affinché possa giungere anche ai nostri discendenti, salvando in questo modo la memoria storica genitrice della nostra identità.