Giuseppe Maurizio Piscopo
Io e Toni Pecoraro non ci vediamo da moltissimi anni. Entrambi non viviamo più a Favara eppure siamo molto legati alla nostra Comunità dalla quale abbiamo appreso tanto. Toni ha lavorato in silenzio con semplicità e rigore ed ha raggiunto notevoli traguardi culturali e artistici. Confesso, che mi lusinga e mi emoziona allo stesso tempo accostare una piccola città d’Arte come Favara con Bologna e Firenze. Gli Artisti appartengono a tutti e Toni appartiene al mondo. Mi sia consentito dedicare questa raffinata intervista a tutti quei ragazzi e ragazze favaresi e siciliani che studiano fuori e che si stanno impegnando con tutte loro forze per cambiare la nostra società e sono rimasti lontani dai genitori per i problemi sanitari che stiamo vivendo.
Toni Pecoraro nasce a Favara (Agrigento) il 27 aprile 1958.
Nel 1977 si diploma all’istituto d’arte di Agrigento.
Dal 1977 al 1981 studia decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Nel 1983 consegue le abilitazioni in educazione artistica e discipline pittoriche.
Nel 1985, come vincitore di una borsa di studio, frequenta la scuola di specializzazione per la grafica “il Bisonte”.
Dal 1985 al 1990 insegna tecniche dell’incisione presso l’accademia di Belle Arti di Macerata.
Attualmente insegna tecniche dell’incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Quando nasce la tua passione per la pittura?
Potrei dire, ora che mi esprimo guardandomi indietro, che è nata da sempre. Da quando nel periodo dell’adolescenza, in quella confusione che fluttua costantemente, ti appare, come unica certezza, il bisogno di dare risposte subitanee alle inquietudini e alle domande, che ti si affacciano nella testa e nell’animo; tutto questo senza sapere che le risposte, forse, certe, sono di là da venire.
Da Favara ti sei trasferito prima a Firenze e poi a Bologna. Cosa ti è mancato della Sicilia in questa lunga esperienza di emigrante?
Inizialmente nulla, perché come le radici di un arbusto acerbo, rimangono a rafforzarlo, ben nascoste sotto al terreno; così per me a quei tempi, c’era il bisogno di lasciare e di germogliare, cercando una luce e un’aria diversa. Partire non è stata una necessità materiale, economica. È stata piuttosto un’urgenza, si fisica, ma per una completezza interiore e di ricerca; direi quasi un moto di conflitto. Firenze e Bologna, in tempi e in condizioni di maturità diverse, sono state per me ambienti di crescita divenuti familiari. Bellissime città che hanno contribuito a chiarirmi le idee, arricchendo il mio percorso artistico e personale, lavorativo anche: emigrante? No direi piuttosto viandante e solo da poco posso dire, che ho cominciato a sedermi e a rimirare cose già viste.
Cosa rappresentano i labirinti nella tua vita?
Esattamente l’essere centrale. Al di là di tutte le molteplici valenze iniziatiche, misteriche più o meno accessibili, essi sono perni attorno ai quali e progressivamente, dentro ai quali, confluiscono elementi: eterei e impalpabili, fluidi e incorporei, ma anche solidi e strutturali. Il paradosso della concretezza perimetrale unita all’incertezza della via. E la stessa relazione che passa tra, un contenente fermo e sicuro, e un contenuto mobile; con l’idea, che nell’immaginario, la libertà di invertire il rapporto è possibile.
Nei tuoi lavori racconti il mondo greco e la Sicilia…
Sento adesso più che mai, che è un legame profondo, incisivo “questa parola mi suona familiare”; è stato però, un metabolismo lungo, ho dovuto per parecchio tempo de-costruire vizi e virtù della mia terra. L’influenza degli elementi primordiali, acqua, terra, fuoco e aria giungono da lontano e mi attraversano: forse è per questa alchimia che ho scelto l’incisione calcografica per rappresentarmi, abbandonando la pittura; per osmosi territoriale. Il passaggio dei “fluidi” si rinnova tutte le volte che scendo in estate, anche se per breve tempo. Compongo e scompongo i pezzi di un puzzle culturale: Palermo, Siracusa, Ragusa, Agrigento – ma lì gioco in casa – Modica; decentrato, ma interessante anche se piccolo, il luogo di Morgantina: tutti i luoghi del mito e delle peregrinazioni storiche.
Tra i tuoi disegni ne ricordo uno a Stefaninu Cuppularu. Come mai hai scelto questo personaggio?
Una costante che mi ha sempre accompagnato nelle mie osservazioni e ricerche, è la comunicazione in qualunque sua forma, anche e soprattutto, per mia natura, quella non verbale. I miei interessi visivi sono sempre stati attratti da unicità ricche di valori anche nella diversità. Immagini significative perché di forte contrasto, oppure perché presenti nei luoghi e nei tempi a loro adeguati: in questo caso una figura asciutta e abbagliante fatta della stessa consistenza delle terre agrigentine.
Hai studiato al Bisonte, all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Cosa ti hanno dato queste due grandi scuole?
Mi hanno dato la vista: è troppo! Sicuramente mi hanno dato le giuste lenti per guardarmi intorno e le diottrie che da giovane miope mi mancavano. Ci sono stati entusiasmi e delusioni; conoscenze, arricchenti e amicizie: quelle vere, che tuttora conservo. E poi la professione testata al Bisonte, stimolata grazie anche a quei maestri ma, che io poi, ho fatto crescere con l’orgoglio testardo che solo un’isola ti sa dare.
In questo momento insegni tecnica dell’incisione all’Accademia di belle arti di Bologna.
Si certo, dopo tanti anni considero Bologna una città amica; ho avviato nel tempo diversi rapporti di lavoro stimolanti, e instaurato vicinanze professionali di grande stima. Spero anche di aver lasciato qualcosa ai miei studenti, dentro alle mura di quei laboratori e ora, che mi avvicino nei pressi di un’attempata uscita, faccio mente locale per questo: proprio in questa circostanza di una didattica a distanza e virtuale, ricerco una conferma di questo ruolo, che ultimamente davo un pò per scontato.
Puoi dare una tua definizione dell’Arte?
Non proprio una definizione, i grandi artisti si sono espressi in questo fornendo risposte continue. Forse per me è più una constatazione: quella di un movimento sussultorio; di uno sciame sismico di assestamento continuo.
Puoi descrivere in poche parole il paese dove vivi Montefiore Conca?
È la certezza. Quella sicurezza, che un viandante dalla natura stanziale (ossimoro di completamento) ricerca. Inizialmente, un paese accogliente in cui costruire; ora un luogo fatto della mia stessa sostanza, con ritmi e prospettive cucite addosso alle mie misure.
Il bianco e il nero sono due modi per raccontare il mondo. Tu hai scelto il bianco e nero, per quale ragione?
Io in realtà ho scelto i grigi, nel senso che è possibile rimettere in gioco il colore con un filtro di apparenti acromie. In questo mi aiutano le numerose morsure delle mie lastre, con tempi calibrati per conferire una sensibilità cromatica e una ricerca di morbidezza, che mi interessa. Più che ai parametri opposti faccio riferimento ai toni intermezzi.
Esiste un catalogo delle tue opere?
Si esiste una pubblicazione cartacea, che ogni tanto aggiorno; diversi cataloghi di mostre collettive stampate ad hoc, ma non ho mai fatto molto caso a questo, perché in realtà, ho trovato risposte maggiori nel web, attraverso il mio sito e in tutte quelle case virtuali, che ospitano da qualche tempo i miei lavori.
Hai inciso 165 lastre, di cui 27 ex libris un grande lavoro. In quanto tempo l’hai realizzato?
Tutta una vita. Il tempo è relativo, ed è variato in divenire a seconda delle urgenze espressive: in questo momento per me è tempo di clessidre lente e centellinate; ogni granello deve addossarsi al resto con i miei tempi e con molta calma e pazienza.
Puoi parlare dell’isola delle meraviglie. Cosa rappresenta?
È il trasporto del mio vissuto.
Quali sono i materiali che utilizzi per le tue opere?
Quelli di tradizione sperimentati nel tempo e altrettanti creati dalla mia esperienza e continuerò ad averne cura lasciando traccia, per rallentare il più possibile l’oblio di tecniche reiette all’uso, perché ingiustamente tacciate di retrogusto e radicalmente mostrate come eco-incompatibili; sostituite da etichette nuove, per una ricerca dell’uovo di Colombo. Per fortuna mi appago dell’interesse nutrito dai miei studenti per questo mondo ormai di nicchia.
La fantasia certo non ti manca, se da un ficodindia hai ricavato un carretto siciliano emblema della Sicilia contadina e folkloristica…
Come dicevo prima ci sono impronte che generano e alimentano fantasie del passato o del presente.
Che cosa rappresentano le ombre?
Per la luce e l’ombra attingerei fisicamente in toto alla Sicilia e a quell’origine in trasparenza.
E la luce di Caravaggio?
Magnifica e inarrivabile.
La melanconia di Dürer è considerata un’elaborata metafora del mestiere dell’artista, anche per te?
Certo è un’opera di grande fascino e di grande contraddittorio.
Ti ritieni più un artista o un artigiano?
Un incisore.
San Giorgio e il drago è una tua opera particolare, ne vuoi parlare?
San Giorgio è uomo, ma armato di una struttura primitiva; forte di una difesa propria e naturale, come aculei di un istrice verso l’esterno. Con quest’arma San Giorgio è in grado di percorrere i meandri del drago labirinto, raggiungere il centro ed infine uscire.
Quale Bologna hai rappresentato con la tua arte?
Principalmente la Bologna dei miei sguardi, con un “tanticchiedda” di conoscenza storica.
Tu utilizzi le tecniche del passato o ne hai inventato una tua scegliendo materiali molto particolari?
Come ti dicevo, le tecniche sono per me come un’estensione del mio lavoro, perfettamente aderenti a ciò che cerco in quel momento: per questo sono state sperimentate in divenire. Oggi ho un buon bagaglio a cui attingere.
Sono moltissimi i critici che hanno scritto sul tuo lavoro da Alessandra Compostella ad Aldo Gerbino, Marco Fiori, Marzio Dall’Acqua, Paolo Bellini, Luc Van Den Briele ed altri e tutti hanno scritto pagine pregevoli…
Si, veramente mi sono sempre sentito ben interpretato dai professionisti del pensiero espresso in parole: a ciascuno il suo. Aggiungerei, se posso, anche un altro nome, per me importante in un momento significativo del mio percorso: il dottor Remo Palmirani, che ho avuto il piacere di conoscere quando mi sono accostato per un periodo al mondo degli ex libris: persona dalla sensibilità competente e degna di nota, che purtroppo non c’è più.
Qual è il premio che hai ricevuto fra i tanti al quale ti senti più legato?
Emotivamente al primo, ne ricordo ancora l’impronta invernale: era dicembre e ricordo quella sensazione precisa di essere riuscito a comunicare qualcosa a qualcuno.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vivere le mie emozioni incidendole e lasciare una lettura di me in posti sicuri.