Giuseppe Maurizio Piscopo
In piazza Cavour incontriamo Giovanni Marchica, un maestro, una persona di cultura che ha guardato sempre al cambiamento, prefigurando mondi lontani pur vivendo in un paese di provincia come Favara.
Ha collaborato a giornali e riviste (Giornale di Sicilia, La Mela, Il Comune, AgrigentOfferte, BuyMagazine…) e ha sempre mostrato una grande attenzione per i libri e per i grandi autori della nostra letteratura, come Luigi Pirandello, Gabriele D’annunzio, Guido Gozzano.
Giovanni Marchica nasce a Favara nel 1950, frequenta l’Istituto Magistrale Statale “Raffaello Politi” di Agrigento, dove nel 1967 consegue il diploma di abilitazione. Nel 1972 si laurea in Pedagogia presso l’Istituto Universitario di Magistero di Catania, ottenendo qualche anno dopo l’abilitazione professionale all’insegnamento di Filosofia e Scienza dell’Educazione negli Istituti d’istruzione secondaria superiore.
Per circa un quarantennio insegna nelle scuole elementari delle province di Catanzaro, Caltanissetta e Agrigento.
Nel 1991, con decreto del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, su proposta del Ministro per la Pubblica Istruzione, gli viene conferito il Diploma di Benemerenza di III classe per “l’opera educativa particolarmente zelante ed efficace svolta a favore dell’istruzione popolare”.
Del 2007 è il suo saggio “Turi Morello”, dedicato al grande tenore e pittore favarese scomparso nel 2012 all’età di ottantasei anni, pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Favara.
Tra i suoi hobby c’è quello del radiantismo, al quale si dedica da oltre un trentennio. Attualmente ricopre l’incarico di sindaco revisore dei conti della sezione A.R.I. (Associazione Radioamatori Italiani) di Agrigento.
È in pensione dal settembre 2007.
Quando nasce la tua passione per la scuola?
In un certo senso “sono nato” maestro, perché convinto sin dalla più giovane età ‒ convincimento rinsaldatosi in me nel corso degli anni ‒ che nell’insegnamento elementare ci fosse un valore aggiunto, costituito dal fatto di poter influire in maniera sostanziale non solo sull’alfabetizzazione culturale delle giovani generazioni, ma anche e soprattutto sulla loro formazione umana e sociale, oltre che sulla costruzione di un saldo edificio valoriale in grado di sorreggerne l’azione e orientarne la condotta lungo l’arco dell’intera esistenza.
Perché non hai mai lasciato Favara da me definito paese difficile e amaro?
Per rispondere a questa domanda vorrei prendere in prestito le parole di una nota canzone di Nicola Di Bari degli anni ‘60: “Paese dove si nasce, sei come il primo amore, non ti si può scordare…”.
Ed è proprio così, dal momento che l’amore non è mai ‒ guai se lo fosse! ‒ commisurato ai meriti dell’oggetto dei propri desideri. Favara, pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, che sono obiettivamente tanti, è e rimarrà sempre nel mio cuore. Come direbbe il compianto Salvatore Sciortino: “‘U me paisi è sempri ‘u me paisi”.
Tuo padre è stato zolfataro, in un paese di zolfatari.
Perché quella dello zolfo è una memoria dimenticata?
Il mondo della zolfara è un patrimonio comune a tutti i favaresi. A esso sono legato in maniera “ancestrale”, perché mio padre proprio in una delle tante miniere di zolfo di cui allora pullulava il nostro territorio, a Deli, nei pressi di Naro, perse la vita a soli ventinove anni, assieme a un ragazzo, Giovanni Di Noto, di quindici anni.
Il problema della memoria non è esclusivo della zolfara, è, invece, una questione che accomuna tutti gli aspetti, nessuno escluso, della vita e dell’attività sociale. Ormai da decenni, la globalizzazione, che pure ha i suoi innegabili meriti, ha determinato la progressiva scomparsa degli aspetti più significativi della storia e della tradizione locali, e con essa l’appiattimento della realtà sociale in una massificante e anonima dimensione nazionale e internazionale.
I tentativi di recuperare la memoria storica della zolfara, ma anche delle tradizioni agricole, così vive fino a quaranta cinquant’anni fa, e non solo, hanno dato dei risultati insoddisfacenti e comunque non in grado di arginare efficacemente una tendenza inarrestabile che ha quasi completamente spazzato via dal ricordo e dalla consapevolezza delle nuove generazioni una parte non indifferente della nostra storia recente.
C’era una volta il signor maestro… Quando passava il signor maestro, la gente si toglieva il cappello, era rispettato come una delle figure più importanti della società insieme al parroco, il farmacista e il maresciallo dei carabinieri. A un certo punto il maestro viene considerato un “fannullone” che gode di tre mesi di vacanza. Che cosa è successo nella nostra società?
Secondo il mio parere, quello della “caduta di prestigio” della figura del maestro elementare, così come di altre figure da te opportunamente menzionate nella domanda, è uno dei prezzi che la nostra società ha dovuto pagare alla“cultura” del cosiddetto benessere, quasi sempre limitato all’aspetto materiale, che identifica il prestigio con la produttività materiale immediata. Quest’ultima diventa in tal modo il metro esclusivo di valutazione di una determinata attività, complice in ciò il risibile trattamento economico riservato ad alcune importanti categorie professionali, quale quella degli insegnanti: si pensi che gli stipendi dei docenti italiani sono tra i più bassi d’Europa e che, ad esempio, in Germania un insegnante guadagna in media il doppio del suo collega italiano.
Che tipo di maestro sei stato?
Io formulerei la domanda in modo diverso: “Che tipo di maestro hai cercato di essere?”Infatti, la distanza tra quello che si cerca di fare e quello che effettivamente si riesce a fare è spesso notevole. Nella pratica quotidiana dell’attività educativa ho sempre cercato di ispirarmi a due criteri metodologico-didattici fondamentali: da una parte la “gradualità”, dall’altra la “concretezza”, la cui assenza costituisce a mio parere un ostacolo invalicabile all’instaurazione di un corretto ed equilibrato rapporto educativo.
Il mio sforzo costante è sempre stato quello di coniugare amore e fermezza, libertà e autorità, usare, come si diceva una volta, secondo le circostanze “il pugno di ferro e il guanto di velluto”; questo perché nell’insegnamento è indispensabile mantenere la distinzione dei ruoli. Se l’autorità è sempre e comunque da respingere con fermezza, importante è, invece, l’autorevolezza intesa come riconoscimento intimo del ruolo e della funzione dell’altro, in ogni tipo di rapporto interpersonale, compreso quello educativo.
E’ vero che i bambini sono più avanti degli adulti?
Sì, lo sono in molte cose. Ricordo che, soprattutto nei miei primi anni d’insegnamento, spesso imparavo “con” e “dagli” alunni. Dei bambini ho sempre ammirato la capacità di osservare la realtà senza il peso ingombrante delle sovrastrutture mentali che, invece, limitano notevolmente l’orizzonte conoscitivo degli adulti. Ecco perché rispettare la libertà dei discenti non significa limitarsi a trasmettere nozioni, ma aiutare i più piccoli nel difficile e accidentato cammino della conquista del sapere.
Cosa rappresentano i bambini?
“I bambini sono speranza” è il titolo di un opuscolo di Papa Francesco, che ha visto recentemente la luce per merito di padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, che vi ha raccolto alcune brevi e semplici frasi del pontefice rivolte ai bambini.
Come afferma il papa, i bambini sono innanzitutto speranza, sono come il verde novello delle gemme primaverili che stupisce e rincuora, il “… verde più nuovo dell’erba / che il cuore riposa” di quasimodiana memoria. I bambini rappresentano la continuità della vita, sono esempio mirabile di disinteresse, condivisione, tolleranza,pace, amore. Amare i bambini significa soprattutto avere speranza nell’avvenire!
Internet è un’autostrada piena di pericoli per i bambini, forse è arrivato il momento di educarli a utilizzare consapevolmente le nuove tecnologie?
Navigare in Internet espone a una serie di rischi, di cui è spesso difficile calcolare in anticipo la portata, qualche volta devastante. I bambini e gli adolescenti, a causa della giovane età e della conseguente mancanza di esperienza, sono molto più vulnerabili degli adulti al “fascino perverso” della Rete: le cronache dei giornali riportano quotidianamente gravi episodi di cyber bullismo, di phishing, di truffe e di atti predatori perpetrati ai danni di minori, di vite di ragazzi letteralmente spezzate dall’imprudenza di un post pubblicato per gioco o per spirito di emulazione…
Le conseguenze, talvolta gravissime, che l’uso improprio del Web può provocare, soprattutto in giovanissima età, non sono limitate alla sfera fisica, ma si estendono altresì a quella psichica, sfociando spesso nel disagio sociale e in altre gravi forme di dipendenza e/o di devianza.
La scuola, d’intesa con la famiglia, ha il dovere di educare i ragazzi al corretto utilizzo delle nuove tecnologie, seguendo due direttrici: da una parte l’alfabetizzazione informatica, dall’altra l’educazione all’uso responsabile della Rete, cioè a un approccio al mondo di Internet in modo consapevole e con appropriato senso critico.
A cosa servono le Lim se la maggior parte delle scuole manca di connessione a internet?
L’Italia è un Paese dalle mille risorse, e lo sta dimostrando in occasione del momento buio che stiamo attraversando: non ci manca il cuore, né tanto meno l’intelligenza, che anzi esportiamo da sempre a piene mani. Volendo essere un tantino autocritici, potremmo dire che spesso limitiamo masochisticamente i nostri interessi, accontentandoci… Nella fattispecie siamo paghi di avere la LIM in molte aule scolastiche del nostro territorio, ma anche altri importanti dispositivi informatici e non, in grado di migliorare notevolmente i risultati dell’azione della scuola, ma ci accontentiamo di averli e tutto finisce lì, perché molte volte il loro effettivo impiego nella didattica è interdetto o, comunque, limitato dalla mancanza e/o dall’insufficienza di connessione, o da altre ragioni che sarebbe lungo enumerare!
A chi servono i progetti?
Che ritorno culturale hanno i bambini da questo “business”?
Ho sempre ritenuto che i cosiddetti progetti educativo-didattici presenti ormai da decenni nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi anni, possano avere un ruolo importante nell’ambito dell’offerta formativa di ciascun istituto, solo ad alcune condizioni: essere contenuti nel numero, spesso inutilmente pletorico; selezionati, riguardo all’argomento, tra quelli unanimemente ritenuti utili alla formazione generale degli alunni e pienamente integrati nel PTOF; affidati a docenti in possesso di una comprovata competenza e di un reale bagaglio esperienziale relativi all’oggetto del progetto stesso.
In caso contrario, è evidente, quello dei progetti è destinato a rimanere, come talvolta avviene, un business e la domanda che mi poni a non avere ancora per molto tempo una risposta esaustiva.
Hai collaborato con il mensile “La Mela” e con altri giornali.
Che ricordo hai di queste esperienze?
La mia prima collaborazione giornalistica risale al settembre del 1978, quando, a quattro mani con Umberto Re, scrissi l’articolo “Un deposito per i Chiaramonte”, pubblicato nella pagina regionale del “Giornale di Sicilia”.
Da allora i miei articoli, quasi tutti a carattere culturale, sono stati ospitati solitamente in giornali e riviste del nostro territorio:“La Mela”, “Il Comune” (di Favara), “AgrigentOfferte”, “Buy Magazine”…
L’esperienza giornalistica ha rappresentato una tappa fondamentale della mia formazione, perché, oltretutto, mi è servita da sprone per allargare i miei orizzonti culturali, dando a essi il taglio della contemporaneità.
Cosa pensi del libro di Leonardo Sciascia Le parrocchie di Regalpetra?
Pubblicato per la prima volta nel 1956 per i tipi dell’editore Laterza di Bari, “Le parrocchie di Regalpetra” è una raccolta di saggi che scandagliano dall’interno la condizione di sottosviluppo della Sicilia in quegli anni. Nelle “Parrocchie”, ma soprattutto nelle “Cronache scolastiche” ‒ pubblicate per la prima volta nel n. 12, gennaio-febbraio 1955, della rivista “Nuovi Argomenti” ‒ che ne costituiscono il nucleo originario, la vita della povera gente di Regalpetra (leggi Racalmuto) è ritratta con un realismo, affiancato da una profonda adesione morale, tanto più convincente quanto maggiore è la semplicità del linguaggio adoperato.
Come afferma lo stesso Sciascia, la pubblicazione, come la maggior parte di quelle che fanno capo alla sua produzione letteraria, costituisce“un [unico] libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati.”
Ma egli, “malgrado tutto”, innalza la bandiera di quello che la critica ha chiamato “ottimismo della ragione”: “Credo nella ragione umana – egli dice – e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono.”
Continuando con la letteratura: qual è l’attualità dello scrittore Luigi Pirandello e qual è stato il suo rapporto con la provincia e con Favara in particolare?
A ottantaquattro anni dalla morte e a ottantasei dal conferimento del premio Nobel per la letteratura“ per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica teatrale”, Luigi Pirandello è ancora il drammaturgo più rappresentato in Italia e in molti dei Paesi europei ed extra europei. Le pièce che ricorrono con maggiore frequenza sono “Pensaci, Giacomino!”, “Liolà”, “Il berretto a sonagli”, “Cosi è (se vi pare)”, ecc.
Il segreto di questa straordinaria longevità, più unica che rara nel panorama letterario internazionale, è dovuta in larga misura ai temi trattati che, avendo carattere di universalità, si sottraggono all’ingiuria del tempo e all’avvicendarsi delle mode.
In quanto ai rapporti di Pirandello e della sua produzione, non solo di quella drammaturgica, con la provincia e con Favara in particolare, basta dare un’occhiata alle sue opere, molte delle quali sono ambientate a Favara e negli altri comuni della provincia, che, al di là della mera vicinanza fisico-geografica con Agrigento, assurgono spesso alla dimensione di luoghi d’elezione dell’anima e ne costituiscono per così dire una fonte d’ispirazione privilegiata.
Tu ami particolarmente Gabriele D’annunzio e Guido Gozzano.
Ce ne vuoi parlare?
Si tratta di due autori che la critica colloca ordinariamente su due versanti differenti, e per certi versi incompatibili tra loro, nella nostra letteratura, e a una prima rapida analisi sembra proprio così: da una parte D’Annunzio, romanziere, poeta, drammaturgo, giornalista, impegnato in prima persona nel primo conflitto mondiale, massimo rappresentante del decadentismo italiano, in cui superomismo ed estetismo coesistono felicemente, cultore della parola per antonomasia (si pensi, ad esempio, a “La pioggia nel pineto”)…, dall’altra Gozzano, poeta post-decadente, rappresentante di punta del cosiddetto crepuscolarismo, che, tuttavia, negli anni giovanili fu emulo del poeta di Pescara soprattutto in ordine al cosiddetto “mito del dandy”, l’esteta, l’uomo di lusso alla continua ricerca del bello.
In realtà, credo che tra i due poeti ci siano delle notevoli affinità (e ciò spiegherebbe l’interesse che nutro per entrambi), che di solito sfuggono a una lettura superficiale, soprattutto un “intimismo” che li accomuna e che è possibile riscontrare in alcune loro composizioni poetiche.
Per fare un esempio, non sono molto dissimili tra loro, per quanto riguarda contenuto e ispirazione: “La signorina Felicita, ovvero la Felicità” (“Signorina Felicita, a quest’ora / scende la sera nel giardino antico / della tua casa. Nel mio cuore amico / scende il ricordo…” [Gozzano])e “Consolazione” (… Il giardino abbandonato / serba ancóra per noi qualche sentiero. / Ti dirò come sia dolce il mistero / che vela certe cose del passato…” [D’Annunzio]). In questo caso, entrambe le liriche sono caratterizzate da un forte struggimento interiore per la caducità della vita, unito al nostalgico rimpianto per le cose che potevano essere e non sono state.
Qualcuno ti ha definito maestro nell’anima.
Chi ha scritto questa frase?
Questa domanda mi fa tornare indietro di oltre quarant’anni, quando prestavo servizio nelle scuole elementari del plesso “G. A. De Cosmi” di Villaggio Mosè. Lì conobbi il marito di una mia collega, il geometra Pippo Bruccoleri, di origine favarese, uomo ingegnoso e versatile, prematuramente scomparso alcuni anni fa, figlio del compianto ispettore scolastico Antonio, ancor vivo nella memoria di tanti.
Pippo, che, bontà sua, apprezzava in me soprattutto il giovanile entusiasmo e la completa dedizione con cui m’immergevo nel mio lavoro, un giorno mi fece dono di un libro di Leonardo Sciascia, “Le parrocchie di Regalpetra”. Quando lo aprii, vi lessi la seguente dedica, che, inutile dirlo, mi riempì d’orgoglio, nonostante la ritenessi, e la ritenga ancor oggi, del tutto immeritata: “A Giovanni Marchica, maestro nell’anima!”.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Parlare di progetti alla soglia dei settant’anni mi appare quanto meno pretenzioso. Posso dirti, piuttosto, che nel tempo libero mi dedico alle attività che ho sempre svolto, cercando di rimanere costantemente aggiornato sui fatti di cronaca, attualità, cultura. In questo periodo mi occupo soprattutto di editoria, curando, naturalmente a “livello artigianale”, l’edizione di libri di autori locali. In particolare mi piace ricordare la lunga collaborazione con lo storico favarese professor Antonio Arnone, di cui ho tenuto a battesimo molte delle pubblicazioni, dai “Racconti di Isola persa”, del 2009, al recente “Favara, opere pie nell’età feudale e rifondazione del paese” (2019).