Giuseppe Maurizio Piscopo
Da Milano una notte in automobile ritornai a casa per le vacanze di Natale. Approfittai della cortesia di un maestro che insegnava nella stessa scuola e rientrava da alcuni suoi parenti a Canicattì. Fui io stesso ad indicargli la strada. Quando arrivammo alle porte del paese annunciai al mio amico che da lì a poco gli avrei mostrato una delle sette meraviglie del mondo, la fontana di Giarritella: il luogo magico della mia infanzia. Quella fontana quand’ero piccolo era affollata di donne, muli, carretti e carrettieri che si recavano in campagna e in miniera alle prime luci dell’alba. Le donne in fila portavano i “lanceddri” in testa, un bimbo per mano ed uno in grembo. Partivano dalla collina di San Francesco, passavano dalla fontana dei Canali e strizzavano la biancheria che brillava pulita sotto i raggi del sole. Erano lenzuoli bianchissimi.
Dentro di me pensavo:- “La vita è allegra e spensierata solo quando si è bambini”.
Un giorno un vecchio falegname mi fece una confidenza:- “La Giateddra morirà il giorno in cui non darà più una goccia d’acqua. Allora diventerà come un vecchio che avrà solo gli occhi aperti, vorrebbe parlare ma gli mancherà la parola”. La parola la fontana della Giarritella l’ha avuta per tanto tempo finchè c’era l’acqua… Poi è finito tutto! Come si possono scordare le liti e le grida delle donne che volevano riempire per prime i loro “bummuli” e le loro “lanceddri”. Sciarri niuri di fimmini, fatte di grida, muzzicuna e parole nere di cattiveria e di rabbia, finu a scipparisi l’ultimo capello che avevano in testa. Inutile per le persone dividerle, si prendevano calci e pugni. Da noi si dice:-“Cu sparti n’havi a megliu parti”. E poi filami e maledizioni contro tutta la famiglia fino alle sette generazioni.
Voci che arrivavano fino in cielo, con i Santi che sentendo quelle frasi ingiuriose si giravano dall’altra parte per non sentire. Qualche Santo che conosceva le cose di questo mondo sorrideva e pensava:- “Ci voli u ventu n’chiesa ma no astutari i cannili”! A Favara si esagera sempre. Li lanceddri si rompevano, si smuddricavanu, pizzuddru pi pizzuddru come i sogni dei bambini.
Quelle stesse donne che vedevo in chiesa a pregare la Domenica e nelle feste comandate, alla Giarritella si trasformavano, diventano cattive, arrivavano a strapparsi le vesti, a buttarsi a terra. I bambini piangevano, avevano gli occhi tristi e malinconici. Ma gli anni passarono lo stesso e i bambini diventarono uomini. Le ragazze si sposarono e partirono per il mondo dimenticando le liti e le fontane.
A la Giarritella in passato i contadini, gli zolfatari, i cani randagi, i muli e i cavalli trovavano un momento per rinfrescarsi, prima di attraversare le assolate e polverose campagne. Accanto alla fontana di Giarritella c’erano due palme profumate che mandavano una frescura straordinaria e nascondevano la luna piena dell’estate, quella luna che certe volte si tingeva di uno strano colore, di un colore forte e intenso descritta con arguzia dalle sapienti mani di Antonio Russello nella luna si mangia i morti.
Le donne incinte quando scorgevano quella luna presagivano brutti momenti ed avevano paura. Quella notte non riconobbi più il mio paese. La palme erano state abbattute e la fontana era asciutta. Quando mi trovai di fronte alla fontana di Giarritella chiesi al mio amico di farmi scendere dall’auto. Dissi che ero arrivato a casa. Ero stordito. Rimasi in silenzio. Avevo bisogno di camminare, di riflettere, di rimanere da solo con me stesso. Continuai a girovagare per tutti i quartieri, fino all’alba. Volevo scoprire la città vecchia con le sue case di gesso nel silenzio della notte. Guardai la luna e piansi.