di Giuseppe Maurizio Piscopo.
Due vecchi professori di concertino napoletani un giorno non sapevano che fare, presero la chitarra e il mandolino e iniziarono un viaggio meraviglioso, con un sogno fuori dal comune: suonare in paradiso le canzoni napoletane famose in tutto il mondo. San Pietro fu felice di accogliere quei musicisti speciali provenienti da una delle più belle città del creato.
In Paradiso quel giorno ci fu il parapiglia e uno scompiglio mai visto. Tutti gli angeli, gli ospiti, i Santi e tutto il personale furono attratti da quella musica che li prese nel cuore e nell’anima per tutto il concerto e corsero alla ricerca di un posto libero in prima fila, alcuni angeli rimasero in piedi. I vecchi professori misero mano ai loro strumenti: chitarra e mandolino e con grande maestria eseguirono un repertorio di canzoni struggenti e piene di sentimento. Ad un certo momento i due musicisti furono presi dal magone e da una grande malinconia: sentirono la nostalgia della loro città. A loro mancavano gli odori, i colori, i profumi, la musica, le voci della gente di Napoli, così chiesero a San Pietro di rinunciare al paradiso per ritornare nella loro città…
Questa canzone l’ho sentita la prima volta nella barberia di Giovanni Nicotra in Piazza Cavour a Favara, mio paese natio, eseguita dalla voce di Stefano Airò accompagnato dalla sua chitarra e da un cliente occasionale che suonava il mandolino ed entrò a sorpresa nella seconda strofa con un tocco molto originale. Ero in compagnia di Antonio Zarcone mio fraterno amico. Ricordo, che siamo rimasti incantati. Avevo 16 anni ed ho chiesto ai musicanti di eseguire più volte quella magica canzone. I suonatori mi accontentarono. Non l’ho mai dimenticato questo nobile gesto.
La canzone è del 1928 e la prima interprete è stata Luisella Viviani. Poi l’hanno cantata altri fra cui Mario Abbate. La sua versione a detta degli storici è stata la più bella e la più autorevole. Luisella Viviani era la sorella di Raffaele Viviani e prima di essere una grande attrice è stata una acclamatissima interprete della canzone napoletana. Gli autori di Dui Paravise sono G. Parente e E. A. Mario. La storia di questa canzone è veramente affascinante. Dui Paravise fu scritta dal diciottene Ciro Parente che all’inizio fu contestato per i versi che all’inizio furono ritenuti blasfemi. Quella canzone musicata da E. A . Mario, aveva riscosso enorme successo nel giro di pochi giorni. E il suo autore aveva raggiunto la popolarità. Molti parroci nelle prediche domenicali si erano scagliati contro l’autore dei versi Ciro Parente . Il poeta nella sua canzone aveva osato far dire ai due professori d’orchestra, ospiti temporanei di San Pietro nel regno dei cieli: “Il paradiso nostro è quello là”. Quello là si riferiva a Napoli. L’origine della canzone fu laboriosissima. In un primo momento Ciro Parente aveva scritto un’intera parodia dialettale della Divina Commedia . Nessun editore aveva voluto pubblicarla, e allora lui, deciso a stamparla a proprie spese, eliminò le intere cantiche dell’Inferno e del Purgatorio. Ma la somma richiesta era molto alta. A questo punto Ciro Parente operò un ulteriore taglio lasciando intatte solo un paio di strofe. Insomma, per poter risparmiare sulle spese di stampa, ridusse tutto ad una breve poesia che intitolò Dui Paravise. Tornò in tipografia e qui ebbe la fortuna di incontrare E. A. Mario il quale la lesse e subito si offrì di musicarla. Ciro Parente divenne famoso da un giorno all’altro.
Ecco il testo della canzone:
Dui viecchie prufessure ‘ e cuncertino
‘Nu juorno nun avevano che fa.
Pigliajeno ‘a chitarra e ‘o mandulino
E ‘nParaviso, Jettero a sunà:
-Tuppe –ttù – “San piè, arrapite!
Ve vulimmo diverti”
“Site Napule?!Trasite!
E facitece senti”.
V’avimm a fà senti doje, tre canzone
Ca tutt’o o Paraviso ha da cantà:
Suspire e vase museca ‘e passione
Robba ca solo a Napule se fa.
E a sera, ‘nParaviso, se sunaje
E tutt’e Sante jettero a senti
‘O repertorio nun ferneva maje:
“Carmela, ‘O sole mio , Maria Mari”
“Ah San Pie, chesti ccanzone ,
Sulo Napule ‘e ppò fà
Arapite stu barcone :
A sentite ‘sta città?
E sott’o sole e ‘a luna, vuje sentite
Sti vvoce, ca so voce ‘e gioventù
Si po’ scennite llà, nun ‘o ccredite?!
Vuje ‘nParaviso, nun turnate cchiù!”
Sono storie di barberie, luoghi magici di incontri maschili, luoghi di sogni, di bugie, di esagerazioni, teatri dell’anima, della poesia e delle miserie della vita, quando i barbieri erano il centro del mondo, quando i barbieri maestri di vita curavano le ossa, tiravano i denti, facevano gli scoppi, levavano le pallottole ai latitanti, curavano gli animali, riparavano gli orologi, portavano matrimoni, facevano i mezzani, facevano concertini e serenate ed erano soprattutto maestri di musica e con chitarra e mandolino nei tempi morti, quando non c’erano clienti componevano delle musiche straordinarie che sembravano scendere dalle lunghe scale del paradiso. A loro è dedicata questa storia, ai barbieri che ho incontrato nella mia vita a Favara, a Lercara, a Palermo e a Parigi. Tutti i barbieri che ho incontrato hanno in comune la fantasia, la furbizia, un modo di parlare assai convincente ed un fascino straordinario con le donne…
Ringrazio di cuore i miei amici: Carlo Aonzo, Massimo Abbate e Michele De Martino per avermi aiutato nella scrittura di questa storia.