Intervista di Giuseppe Maurizio Piscopo.
A Palermo vivono e lavorano ormai da molti anni più di 200 famiglie favaresi .Ancora non c’è un’Associazione o un club che li unisce. Probabilmente in futuro nascerà l’Associazione delle famiglie favaresi con una sede .
Salvo Piscopo nasce a Favara nel 1963 ma vive a Palermo dove ha insegnato per diversi anni matematica e scienze nelle scuole medie, per passare poi ad insegnare scienze naturali in un liceo della città. Sensibile alle tematiche ambientali si è laureato in Scienze Geologiche. Ha svolto per anni la professione di geologo. Ha scritto diversi articoli per il Giornale di Sicilia, l’Unità, Progetto Salute, La Repubblica.Il suo libro di esordio si intitola:Ho sognato un arcobaleno in bianco e nero, Carlo Saladino Editore ed un altro romanzo dal titolo I fantasmi della monaca con la casa editrice Spazio Cultura è in dirittura d’arrivo.
Quando nasce la tua passione per la scrittura?
Mi è sempre piaciuto scrivere, al liceo preferivo i temi di attualità che non quelli storici o di critica letteraria.Mi piaceva comunicare sempre il mio punto di vista senza i condizionamenti dei critici.Dopo la laurea ho cominciato ascrivere articoli per varie testate giornalistiche, allora rigorosamente su carta stampata. Un’esperienza che a scuola, mi è valsa la conduzione di vari laboratori di giornalismo, nonostante che la mia materia di insegnamento di quegli anni, matematica e scienze, non c’entrasse proprio nulla. Scrivere romanzi però è tutt’altra cosa e questa è una passione che mi porto dietro forse da sempre. Ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo quindici anni fa: Analfabetismo di andata. È la storia di un professore che vive, suo malgrado, l’inesorabile declino della scuola italiana. Non so se deciderò mai di pubblicarlo, forse perché l’ho scritto per me stesso e per un mero esercizio di scrittura. Il mio romanzo di esordio è invece Ho sognato un arcobaleno in bianco e nero, pubblicato a fine 2019. È “un romanzo per ragazzi che, come nella migliore tradizione letteraria, parla ai più giovani per insegnare ai più grandi”, così come lo ha definito Tania Spadafora, curatrice della pagina Facebook Il sognalibro. Proprio in questi giorni il romanzo ha ricevuto la menzione speciale d’onore al Premio letterario internazionale “Cumani Quasimodo”. Quella passione iniziale per la scrittura adesso è diventata quasi una malattia, perché non passa giorno che non dedichi un tempo sempre più consistente alla scrittura. Ormai sto terminando il mio terzo romanzo, mentre il secondo I fantasmi della monaca è in corso di pubblicazione per Spazio Cultura Editore, un noir tutto da gustare, ambientato nel monumentale monastero di clausura di Santa Caterina nel centro storico di Palermo.
Quale significato dai alle metafore?
La metafora è uno strumento linguistico che utilizzo molto frequentemente nei miei romanzi. I titoli stessi dei miei libri sono della metafore: Ho sognato un arcobaleno in bianco e nero è una metafora nella metafora: Un arcobaleno in bianco e nero, è un arcobaleno che racconta altro, non semplicemente l’effimero fenomeno ottico che appare qualche volta nel cielo durante le giornate di pioggia. Ritengo che raccontare per metafore sia il modo migliore per far sognare il lettore ed il sogno è la chiave per far immergere chi legge nel cuore delle scene della narrazione, interpretandole e vivendole dal proprio punto di vista in modo da darne un significato personale.
Qual è il tuo rapporto con gli animali?
Credo che il miglior complimento che si possa fare ad un uomo sia quello che, solitamente, viene ritenuta un’offesa: Sei un’animale! Se gli uomini si ricordassero, di esserlo, se la finissero di sentirsi esseri inutilmente superiori, vivremmo certamente meglio, perché l’uomo dimentica troppo spesso di essere parte dell’ambiente in cui egli stesso vive.Da piccolo i miei genitori non mi permettevano di tenere un cane in casa, ma non ho rinunciato ad avere altri animali domestici ed allora ho avuto un cardellino ed un canarino, ma anche dei pesci e persino una gazza che viveva libera in casa. Gli animali vanno trattati per quello che sono: animali. Ogni essere vivente sulla terra sta in un equilibrio perfetto con il resto del creato ed anche gli animali devono mantenere il proprio posto ed il proprio ruolo.
Perché hai scelto un topo quale protagonista del tuo libro?
Il topo è l’animale metaforico per eccellenza. Nel topo si incarnano tutte le paure e le frustrazioni dell’uomo: ripugnanza, terrore, panico, sporcizia, ma se idealizzato e sublimato fino a farlo diventare un personaggio, ecco allora che muta il proprio aspetto sol perché muta la nostra percezione. A quel punto il topo è in grado di suscitare infinita tenerezza, amabilità ed a volte anche commozione. Per spiegare tutto ciò, basti pensare a Topolino e a Topo Gigio, di essi tutti quanti abbiamo dimenticato la loro, mi si passi il termine, topitudine. Jashi, il topo protagonista del mio primo romanzo, è un personaggio caratterizzato da questa dualità: all’inizio della storia è l’intruso, l’essere nero, viscido e reietto che si introduce in casa, ma dopo aver rivelato la sua vera natura di topo saggio ispira rispetto e tenerezza e la sua livrea nera da topo sembra scivolare via davanti gli occhi del lettore.
Come vive un favarese a Palermo?
Per una vita ho scherzato sul mio marchio di fabbrica, quel nato a Favara, pur essendo vissuto a Palermo praticamente da quando sono al mondo. La mia famiglia si è infatti trasferita a Palermo quando io avevo appena diciotto mesi. Per me Favara è sempre stata la gita fuori porta, da vivere con l’avventura del viaggio lungo quel nastro d’asfalto, sempre disastrato, che collega Palermo con Agrigento. Non mancavamo mai ad un appuntamento, a Natale o a Pasqua, con i nonni materni e la grande famiglia Vaccaro, la famiglia di mia mamma. Ho sempre vive nella memoria le giocate a carte, nella casa di zia Rorò, la decana delle zie, a Piana Traversa e d’estate le passeggiate nella tenuta dei nonni in contrada Noce. Ricordo che mio papà mi indicava la casa di Leonardo Sciascia, nel crinale di fronte alla casina Matrona, la casa di campagna dei miei nonni. A Favara esiste ancora la casa che mi ha sempre fatto sognare, con quel dedalo di stanze intorno al cortile e le scale che salivano disordinate fino ad arrivare sui tetti. È la casa in cui sono nato, in Corso Umberto 19. Questa casa ha un ruolo di primo piano nel romanzo che sto concludendo in questi giorni, per buona parte ambientato proprio a Favara.
Il tuo libro dal titolo, Ho sognato un arcobaleno in bianco e nerosi può definire un racconto sull’emigrazione?
Forse sì, ma sarebbe riduttivo. Io lo definirei un romanzo sugli errori dell’umanità, osservati attraverso gli occhi di un topo “emigrato” per errore e quelli di un ingenuo adolescente che si affaccia al mondo. I feedback di coloro che hanno letto il romanzo parlano di immigrazione, di razzismo, di colonialismo, di ambiente, ma anche di scuola, di differenza tra classi sociali, di psicologia e di maternità. Tutti temi trattati nel romanzo, procedendo dal microcosmo per arrivare al macrocosmo per poi tornare, delicatamente, al primo.
Ogni capitolo del tuo libro è preceduto da un disegno a matita, come mai questa scelta?
Diciamo che ho giocato in casa. I disegni così come la copertina del libro sono opera di Vincenzo, mio figlio. Se non avessi avuto la possibilità di sfruttare la sua abilità nel disegno ed il suo estro nell’interpretare il contenuto dei vari capitoli, forse il romanzo sarebbe stato monco. Era proprio questa la veste grafica che avevo immaginato per il romanzo, diciamo che i disegni sono stati realizzati su commissione.
I muri, gli steccati aggravano i problemi del mondo invece di risolverli?
Certamente, ma non dobbiamo pensare solo ai muri fisici, quelli che ancora oggi vengono eretti per tutelare quei diritti di nascita che tanta umanità ritiene di possedere, bensì a quei condizionamenti mentali che sono i veri muri che bloccano le comunicazioni empatiche e culturali tra le persone. È proprio dagli steccati di questo microcosmo che nascono quei mostri eretti a “difesa” di intere popolazioni il cui torto è solo quello di reclamare il proprio diritto a fuggire dalle guerre e dalla fame. E proprio qui che l’uomo si comporta da uomo. Gli animali non alzano muri, combattono nello stesso ambiente ad armi pari, nessuno di essi può arrogarsi il diritto di essere un privilegiato.Le leggi della natura seguono altre strade: Darwin ce lo ha dimostrato.
Qual è stato il maggiore errore della signora Castaldi, la mamma di Renato il protagonista del tuo libro?
La mamma di Renato è l’icona di tutte le mamme del mondo. L’errore che inconsapevolmente compie la signora Castaldi, è il medesimo che compiono la maggior parte delle mamme, quello di vivere la loro maternità nell’ossessione dell’iperprotezione del figlio che vedono sempre minacciato da mille pericoli. Le mamme hanno sentito i loro figli crescere dentro di sé ancor prima che quegli stessi figli respirassero con il loro primo vagito. La nascita, quella separazione dolorosa tra due esseri che si sono nutriti l’uno dell’altra per lunghi nove mesi, separerà fisicamente il figlio dalla madre, ma quest’ultima continuerà ad avere quello stesso legame protettivo nei confronti del figlio che l’ha accompagnata per il periodo della gestazione. Renato capisce ed interpreta questo sentimento della mamma e per questo, al contrario di tutti gli altri personaggi del romanzo, riesce a perdonare la mamma in un abbraccio silenzioso che è più eloquente di mille parole.
Quante volte sbagliano i genitori con i figli?
Sono troppo avanti negli anni per poter dare una risposta che non possa sembrare troppo di parte. Sono papà di due splendidi figli e mi ritengo un padre fortunato, non potevo desiderare di meglio. Sicuramente i miei figli avranno qualche colpa da addebitare a me o a mia moglie, così come l’ho fatto io, da figlio, nei confronti dei miei genitori. Io credo che non esista una categoria di persone, i genitori, che sbagliano contro quell’altra categoria rappresentata dai figli. Chiunque agisce, si espone al rischio di commettere un errore, e i genitori fanno tanto nei confronti dei figli, per questo sbagliano con maggiore frequenza. Tuttavia l’errore non è mai doloso è solo il risultato di una diversa visione delle cose, e nella nostra civiltà post industriale e globalizzata, i gap generazionali amplificano le differenti percezioni della realtà presente e futura.
La diversità è una ricchezza ma la gente ancora non lo capisce. Perché?
Ogni individuo è una monade, così come hanno affermato diversi filosofi da Pitagora fino a Leibniz. Questa monade, può diventare facilmente un’isola nel mare dell’umanità con le coste bagnate dalla diffidenza. Accade allora che si alzino barricate per difendersi da chi è semplicemente, diverso: per colore della pelle, per cultura, per religione, per provenienza geografica o per classe sociale di appartenenza. È un atteggiamento decadente che tuttavia non si origina per caso. Nasce dal lento impoverimento culturale che è in atto a livello globale. È l’ignoranza che rende ciechi e la cecità non permette di vedere quella ricchezza che è sottesa alla diversità. Ancora una volta è la natura ad insegnarci che la biodiversità di una foresta rende ricchi di vita gli esseri viventi che in essa vivonoin un meraviglioso intreccio di competizione e collaborazione. Tutto ciò non si realizza nelle società monoculturali, quelle teorizzate da quelle ideologie che tendono a chiudere i popoli dentro recinti che vanno oltre la fisicità dei confini tra gli stati.
Cosa salverà il mondo la bellezza o il rispetto dell’ambiente?
Se per mondo intendiamo il pianeta terra, quest’ultimo non ha proprio bisogno di essere salvato, sopravvivrà comunque nonostante gli uomini.Ma se per mondo intendiamo quello affollato dagli homo sapiens sapiens che consumano più di quello che il nostro pianeta possa realmente sopportare, allora credo che nessuna bellezza che appaghi le nostre fragili menti potrà salvarci. Il concetto è sempre quello: la terra è la nostra casa ed è essa stessa il massimo della bellezza. Dunque se rispetteremo quel fragile equilibrio che caratterizza la bellezza della nostra casa, ci salveremo.
Un ricordo di tuo padre: il preside Piscopo che ha lasciato un segno indelebile in questa città.
Mio padre è stato uno dei presidi più visionari che Palermo abbia avuto. Dove è passato lui ha lasciato un segno indimenticabile non solo tra coloro che hanno frequentato a vario titolo la scuola media Leonardo da Vinci, sia che essi siano stati alunni, docenti o genitori, ma soprattutto dell’edificio scolastico. Con la sua palestra coperta e l’enorme teatro-auditorium. È proprioa lui che si deve la costruzione dell’edificio della Scuola media Leonardo da Vinci, la cui area è stata caparbiamente sottratta alla longa manus dell’edilizia privata ed il cui progetto è stato redatto proprio dagli stessi professori della scuola e donato al comune di Palermo per il prezzo simbolico di mille lire. Le sue battaglie, le sue proteste erano sempre al limite del codice penale. Ricordo quando con gli alunni, i docenti e le famiglie si mise a capo di un’orda di popolo che occupò l’edificio scolastico mezzo costruito ed abbandonato per il fallimento della ditta appaltatrice.Senza quell’azione di forza, quell’edificio sarebbe rimasto una delle tante opere incompiute disseminate sul territorio consegnate al lento degrado strutturale. Sono trascorsi ormai 11 anni dalla sua morte e mi fa molto piacere che ancora si continui a ricordarlo. Quando ero un giovane studente non volevo che si sapesse che mio padre fosse il preside Piscopo, lui era una presenza importante nel panorama scolastico di Palermo ed io volevo semplicemente andare avanti nello studio solo con le mie forze e per i miei meriti. Per questo non ho frequentato la scuola che mio papà dirigeva: era la scuola più vicina a casa, ma io mi iscrissi in un’altra scuola più lontana.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sono stato abituato a fare un passo dietro l’altro, avendo però un orizzonte ben determinato. Qualche anno fa avrei risposto che avevo in progetto di pubblicare un romanzo, adesso che questo traguardo è già alle spalle posso affermare che più che un progetto, la mia è una speranza, quella di tenere compagnia ai miei lettori facendoli sognare e riflettere con i miei racconti.