Nell’anniversario dell’omicidio del “giudice ragazzino”, la Compagnia teatrale “Arcobaleno” ed il “Cif” (Centro Italiano Femminile) comunale di Favara, presieduti entrambi dalla poliedrica Antonella Morreale, propongono un video tratto dall’opera teatrale di quest’ultima “Anime che si chiamano”
Il 21 settembre del 1990 mentre, alla guida della sua Ford fiesta, percorreva la Statale 640 per recarsi in ufficio senza scorta, come era suo solito, Rosario Livatino veniva freddato in un agguato ordito dalla “Stidda”, associazione mafiosa contrapposta a Cosa Nostra..
Il commando formato da quattro ventenni poneva fine alla vita del giudice che, all’epoca, aveva solo 38 anni e che, presumibilmente grazie ad una frase dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che, per la verità, era dispregiativa, fu poi appellato e conosciuto come il “giudice ragazzino”.
Era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 e, dopo aver conseguito la maturità classica presso il locale liceo Ugo Foscolo, nel 1974 si laureava in Giurisprudenza all’Università di Palermo a pieni voti, cum laude, all’età di 22 anni. Nel 1978 vinceva il concorso in magistratura e il e prestava giuramento presso il Tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 approdava alla Procura di Agrigento dove, quale Pubblico Ministero, avviava una serie di inchieste sulla mafia locale, riuscendo a mettere in luce luce gli stretti legami con la politica. Nel 1981 veniva nominato magistrato presso il Tribunale di Agrigento.
Rosario Livatino non era solo un uomo di legge, ma anche di fede che ha permeato la sua professione di magistrato vissuta, quale servo di Dio, come una missione di carità verso l’uomo.
Nel 1993, il vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro, dava incarico ad Ida Abate, che era stata insegnante del Giudice, di raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione rimessa alla Congregazione delle Cause dei Santi
Dal 2011 al 2018 sono state raccolte oltre 4000 pagine di testimonianze della sua santità dalle quali emerge la figura di un uomo e di un giurista volto all’ umanizzazione della giustizia.
In seno alla conferenza sul rapporto tra fede e diritto svoltasi a Canicattì il 30 aprile 1986, definiva con queste parole il rapporto tra fede, giustizia e legge:
“La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana” perché “la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge”.
Viene ricordato come “giudice ragazzino” per la sua giovane età, ma la sua profonda maturità unitamente al suo spessore culturale e alla sua ardente spiritualità fanno di lui un modello di uomo giusto, testimone fedele della fede cristiana.
Una tra le sue riflessioni più note che può leggersi nei suoi appunti privati, orami testi letterari, è la seguente:
“Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”.
Indubbia la valenza educativa di takle riflessione che non può non indurre ad ulteriori riflessioni in chi la legge: è dovere degli adulti insegnare ai giovani ad essere credibili, ad essere testimoni sempre, col proprio esempio di vita, dei propri ideali e della propia etica, a non scendere a compromessi per raggiungere i propri obiettivi, ma impegnandosi a trecetosessanta gradi con sacrificio e abnegazione.
Nel 30° anniversario dell’uccisione di questo grande Uomo,la Compagnia teatrale “Arcobaleno” ed il “Cif” (Centro Italiano Femminile) comunale di Favara, presieduti dalla vulcanica Antonella Morreale, propongono un video tratto da una fortunata opera teatrale a sua firma: “Anime che si chiamano” .
Struggente e di elevatissimo impatto l’interpretazione dell’attrice favarese Laura Pompeo che interpreta il dolore straziante di una madre (Rosalia Corbo) per la perdita del proprio figlio.
Nell’articolo un abstract del video.