Giuseppe Maurizio Piscopo
Giusto mezzo secolo fa, dietro la caserma vecchia, che era un’ala dell’antico convento carmelitano, esisteva un piccolo paese circondato da quello vero, che noi bambini vedevamo e vivevamo estraneo. Quella zona interna del Carmine che porta in via Largo Pavone e sembra una kasbah araba, con tanti vicoli e vicoletti, con squarci mozzafiato di un paese che molti favaresi non hanno mai visto.
Qui per molti anni ha vissuto l’animo popolare, i sentimenti sinceri e la solidarietà della povera gente. Al centro della via c’era il salone di Felice Grova, un barbiere allegro, spensierato, scherzoso, amante del buon vino e della buona tavola, che oltre a far la barba e qualche taglio di capelli a qualche anziano cliente, quando nel salone c’era meno lavoro, prendeva il mandolino attaccato al chiodo e accompagnato dal giovane apprendista alla chitarra suonava delle composizioni magiche che aveva appreso da bambino e da vero maestro, con quella musica allontanava le tristezze quotidiane della vita e faceva sognare i clienti.
Scrive il medico- scrittore:-Antonio Patti nel libro Musica dai saloni per descrivere la barberia:– “Il suo salone come veniva pomposamente chiamato , era un ampio stanzone col tetto spiovente: vi si poteva sentire il rumore della pioggia e ogni più lieve alito di vento, dato che nessuna soffitta lo separava dalle tegole”.
E a proposito del barbiere ecco una descrizione dettagliata da sembrare un ritratto:- “Era basso, rotondetto, rosso di capelli che portava a corona, su un’ampia portaerei lucidata a nuovo. Il sorriso furbo e ingenuo allo stesso tempo, era quasi sempre stampato sul suo viso regolarmente ben rasato. Felice veniva pagato a fine annata, dopo il raccolto.
Scriveva tutto nella sua ampia fronte e i suoi conti non venivano mai contestati: tra analfabeti la parola valeva più di qualsiasi contratto scritto , che in ogni caso doveva essere letto da estranei. E poi anche il medico veniva pagato allo stesso modo. Il suo destino era legato a doppio filo a quello di tutti i contadini, anzi lui stesso si credeva e si definiva un contadino come tutti gli altri, a cui era toccato in sorte mietere le loro capigliature e le loro barbe, piuttosto che quelle prodotte dalla terra”. Tra lo spiazzo antistante il suo salone e la strada, su in alto, c’era un muro dove erano incastonati numerosi anelli di ferro battuto, a cui i contadini attaccavano i rari muli e le più frequenti scecche.
Un amico d’infanzia mi ha raccontato la storia che leggerete. Ho voluto trascriverla affinchè non si perda nella confusione del tempo che stiamo vivendo. ”“Verso la metà degli anni 60 a casa del mio amico venne installato un telefono fisso collocato al muro, senza lucchetto. Siccome nel quartiere c’erano molte famiglie che avevano i parenti che lavoravano in Belgio, In Francia e in Germania, quel telefono diventò la meta fissa per gli abitanti del posto. Quando si sparse la voce di quel telefono, che collegava gli affetti sparsi per il mondo, per la famiglia di Antonio non ci fu più pace.
I parenti non solo davano quel numero agli altri emigrati, ma fissavano loro stessi e con la massima libertà, quando avrebbero chiamato dall’estero, senza tenere presente le esigenze della famiglia che li ospitava per il tempo di una telefonata, che puntualmente si allungava. “Ci sentiamo domani alle 17 gridava Gasparinu da Liegi”. Noi chiamiamo Sabato alle 15 da Leverkusen, diceva Michele, e da Liegi in Belgio Carmelo.”Noi ci sentiamo Domenica che non lavoro” e così altri e altri ancora … La cosa più bizzarra era che per rispondere alla telefonata non si presentava una sola persona, ma l’intera famiglia che arrivava affannata e correndo. Tutti fremevano per le notizie che arrivavano dall’estero in diretta. Grandi e piccoli entravano in casa a pianterreno, in attesa di conoscere le notizie dei loro cari. Nacque subito un problema: prendendo la cornetta , solo uno poteva sentire e rispondere alla telefonata. E gli altri parenti? Allora il padrone di casa, lo zio Carmelo, che da giovane aveva studiato per corrispondenza alla scuola Elettra di Torino e che nella sua vita era stato sempre generoso con tutti e aveva fatto sempre del bene, gli venne la brillante idea di installare un marchingegno che collegasse la cornetta all’altoparlante. Solo così, sia quelli che stavano dentro e sia quelli che aspettavano fuori potevano sentire e qualche volta partecipare alla discussione.
Erano tempi di miseria e la gente era comprensiva e si aiutava con grande generosità. Ecco una conversazione del paesano che chiede al fratello:-”Come te la passi a Saarbrucken? Risposta:-“ N’un mi possu lamintari, finisciu a simana e subito mi paganu, no comu u paisi ca pi vidiri un sordu ci voli u miraculu di un Santu”! Seconda domanda di un altro parente: “Comu si dice pani in tedesco, comu è u pani drocu”? Risposta: “U pani si dice brot, ma ccà n’un lu sannu fari è duru comu a li corna di tedeschi e unn’havi sapuri”! Un giorno nel periodo di carnevale un tizio spiritoso fece una domanda al cugino ”farfallone” per far ridere tutti:- “E comu si li fimmini tedeschi beddri o ladii? La risposta del cugino non si fece attendere :” Su ammiscati beddri e ladii, ma iu sugnu cca pi travagliari e non pi babbiari, pi mannari qualchi sordu a casa, e poi si dice: moglie e buoi dei paesi tuoi e iu mi vogliu maritari o paisi…Ca fa sempri friddu, u celu è sempri niuru , “ncazzatu” e chiovi a scoppu e ogni vota restu assamaratu. Ca parlanu na lingua difficili e dura. Iu mi fazzu capiri, ma a picca a picca. Un iornu u principali mi dissi pisa pisa, ma ca pisari, ci dissi si cca vilanza un ci nn’è? Il tedesco mi vulia diri di scupari n’terra, pisa in tedesco significa a scupa!…Si voli Diu st’estati vegnu cu na macchina tedesca di cca dra, ca ci vonnu l’occhi pi taliarla. Accussi mi trovu na beddra picciotta a Favara e mi sistemu pi sempri. E Auf wiedersehen Germania. E n’un ci tornu cchiù”!
Le telefonate erano a carico di chi chiamava. Un giorno un emigrante, senza dir nulla, fece addebitare la chiamata alla famiglia del mio amico e a fine mese la bolletta arrivò salata. Dopo ogni telefonata, ritornando verso casa ognuno a voce alta diceva la sua:- “Certo che è brutto vivere in un paese dove si parla un’altra lingua, dove manca il sole, dove non c’è la famiglia, dove mangi sempre crauti rossi, carne e zuppe di patate e dove non senti mai nessuno che canta Vitti Na Crozza!