Qualche giorno fa è stato presentato presso il Palazzo Arcivescovile in Agrigento il Messaggio dei Vescovi di Sicilia in occasione della beatificazione di Rosario Livatino programmata per oggi, domenica 9 maggio.
Mons. Giuseppe Marciante Vescovo di Cefalù e delegato della Conferenza Episcopale Siciliana per i Problemi sociali e il Lavoro, la Giustizia, la Pace e la Salvaguardia del Creato la Conferenza Episcopale Siciliana lo ha consegnato ai giornalisti.
Si tratta di un testo nel quale i vescovi, tuttavia, non ricordano solo il primo magistrato laico martire, ma richiamano anche la figura del Beato Pino Puglisi ed, inoltre, esprimono il proprio rammarico per il fatto che “le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità”.
“Il Signore – si legge nel messaggio- ha benedetto ancora questa nostra terra! L’ha benedetta in uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità.
L’ha benedetta nella sua giovinezza (….) nella sua professione di magistrato (…) nella testimonianza del suo martirio (…) nella sua beatificazione, con la quale offre a noi e a tutti un modello nuovo e dirompente di santità: un modello insolito, che aggiunge ai canoni tradizionali del concetto di santità i connotati dei «santi della porta accanto», con la loro attualità e la loro concretezza, ma soprattutto con l’originalità della loro specifica missione, vissuta coerentemente per diventare più umani in se stessi e più fecondi per il mondo.
Dal Beato Rosario Livatino, consegnato oggi alla storia come il primo magistrato laico martire in odium fidei, impariamo che la santità ci appartiene in forza del battesimo e che siamo chiamati a declinarla in qualsiasi modalità, con qualsiasi mezzo a nostra disposizione, per arrivare dovunque ci sia un residuo di umanità che attende di essere raggiunto e riscattato.
Dal Beato Rosario Livatino, annoverato oggi insieme al Beato Pino Puglisi nella lunga schiera di profeti e martiri del nostro tempo e della nostra terra, testimoni esemplari della conversione dalle parole ai fatti che deve avvenire in seno alla Chiesa impariamo che la santità ha il sapore della speranza che non si arrende, della coerenza che non si piega e dell’impegno che non si tira indietro, perché ogni angolo buio del mondo — compreso il nostro — abbia l’opportunità di rialzarsi e guardare lontano”.
I vescovi ricordano il cammino delle coscienze intrapreso con l’assassinio di Livatino e, poi, proseguito con lo storico appello lanciato da San Giovanni Paolo II nella Valle dei Tempi di Agrigento:
“È l’eredità di chi ha trovato il coraggio della libertà, squarciando il silenzio della connivenza e decidendo di parlare chiaramente, non solo con parole tecniche mutuate dai linguaggi umani, ma soprattutto con la parola del Vangelo. Con questo tratto che li ha accomunati, pur nella diversità del loro stato di vita e nella specificità del loro ambito di azione, i due Beati Martiri — il Parroco e il Giudice — hanno parlato senza mezzi termini delle mafie e alle mafie. E così hanno contribuito ad avviare il processo di riformulazione del discorso ecclesiale sulle organizzazioni di stampo mafioso, ma anche di quello rivolto direttamente agli uomini e alle donne che vi aderiscono: processo che il “grido del cuore” di Giovanni Paolo II ha poi formalmente fondato.
Purtroppo dobbiamo riconoscere che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità.
Da questa consapevolezza dobbiamo ripartire, considerando che in questi trent’anni tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra finito il tempo del grande clamore con cui la mafia agiva nelle strade e nelle piazze delle nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme — meno appariscenti e per questo anche più pericolose — per infiltrarsi nei vari ambiti della convivenza umana, continuando a destabilizzare gli equilibri sociali e a confondere le coscienze.
Di fronte a tutto questo – concludono i vescovi – non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanee ma con azioni sistematiche. Solo così il sangue dei Martiri non sarà stato versato invano e potrà fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza.