Paolo Licata
“Nessuno mi ha colpito!” Così risponde il Ciclope Polifemo, interrogato dagli altri increduli giganti, pensando che il loro fratello fosse preda di un incubo o fuori di testa. Ma se nessuno ti ha colpito perché allora urli e starnazzi come un’aquila inferocita?
Stando alla più accreditata fonte letteraria, il mitologico racconto che il grande poeta greco Omero ne fa nella sua più famosa opera, Odissea, i Ciclopi sono dei giganti, esseri selvaggi, crudeli e violenti, provvisti di un solo occhio, aperto al centro della fronte, alcuni dei quali sono figli di Urano e Gea, altri di Poseidone e Anfitrite, che vivono reietti in Sicilia, alle pendici del vulcano Etna, isolati persino tra loro, lontani dalle città e dai villaggi degli uomini, di cui sono molto ghiotti, dediti alla pastorizia e all’artigianato.
Spinto dall’avverso fato e dall’ostilità del dio del mare, Ulisse (conosciuto anche come Odisseo), fiero guerriero acheo, figlio di Laerte e di Anticlea, cui si deve – riferisce sempre il racconto omerico – la conquista della ricca città di Troia, durante il suo tragico ritorno verso l’isola di Itaca, di cui è il sovrano e dove è atteso dalla moglie Penelope, dal figlio Telemaco e dal vecchio genitore Laerte, approda con i compagni sull’isola abitata dai sanguinari Ciclopi.
L’eroe greco, uomo scaltro, sagace e intelligente ma anche molto curioso, spinto dalla sua sete di conoscenza, si addentra nel ginepraio della vegetazione fino a giungere davanti una grotta, vi entra e osservando con stupore e meraviglia le enormi suppellettili sparse tutte attorno, si convince che l’antro sia abitato da un essere di proporzioni smisurate, e che non può rinunciare di farne la conoscenza.
In attesa del ritorno del padrone “di casa”, il re di Itaca e i guerrieri che sbarcano con lui approfittano della ricca e abbondante dispensa alimentare di Polifemo, divorando e mangiando a sazietà ogni bendidio che trovano sparso qua e là per la grotta.
Improvvisamente, mentre i greci ingurgitano tutto quanto sia commestibile, la terra comincia a tremare sotto i passi gravi e cadenzati del Ciclope che torna dal pascolo e dopo avere ricoverato il gregge chiude dietro di sé l’ingresso della oscura caverna con un grosso macigno. A vedere quel gesto tanto naturale per un forzuto gigante ma impossibile per un uomo normale, i compagni di Odisseo visibilmente impauriti corrono a nascondersi qua e là dietro le rocciose pareti, mentre l’eroe acheo gli si para davanti, sorridente, rassicurante per invocargli ospitalità e viveri a sufficienza per riprendere il viaggio verso Itaca.
Ma Polifemo, furiosamente adirato e infastidito per la presenza degli inaspettati intrusi, che peraltro hanno dato fondo abusivamente alle sue riserve alimentari, afferra un paio di guerrieri, li sbatte violentemente sulle rocce e li divora in pochi bocconi, annunciando ai superstiti che presto subiranno la stessa sorte.
A questo punto Ulisse gli reitera la richiesta di ospitalità, implorandogli di placare la sua ira e di non accanirsi contro i suoi compagni, ma di rispettare le leggi dell’ospitalità tanto care a Zeus, padre di tutti gli dei. Per tutta risposta il feroce gigante ribatte di essere devoto solo a suo padre Poseidone, dio del mare, e perciò non si sente obbligato a rispettare le leggi dell’ospitalità, né l’integrità e la vita degli improvvisati ospiti, promettendogli di divorarlo per ultimo; anzi, incuriosito dalla sua spavalderia e dalla sua audacia, gli chiede di conoscere il suo nome.
Giocando di astuzia, l’acheo gli risponde: “Nessuno, il mio nome è Nessuno, o figlio del grande Poseidone”, ma nel frattempo il crudele Polifemo afferra altri quattro greci e li divora spietatamente. Il re di Itaca e i compagni guardano esterrefatti e inorriditi l’orrendo scempio che il mostro consuma sugli inermi e malcapitati uomini che adesso soggiogati dalla paura inveiscono contro il loro capo accusandolo di averli condotti in questa funesta avventura, forse senza alcuna via di scampo, animato solo da egoismo e da vanagloria.
Ma l’astuto figlio di Laerte ha già in mente la soluzione per cavarsi da quel mortale pasticcio e portare in salvo i compagni rimasti. Ripresosi dallo stupore e dal dolore provocato dalla orribile e disumana morte dei propri amici fagocitati dal malvagio gigante, gli offre del vino che per buona sorte aveva portato con sé dalla nave ormeggiata, dicendogli che quella è una bevanda di cui solo gli dei possono beneficiare; egli sentendosi lusingato di cotanto privilegio, prima lo assaggia, poi accenna di gradire la strana, divina bevanda, rossa come il sangue e quindi ne chiede ancora; ne beve, ne ingurgita così tanto che presto il Ciclope ubriaco e stordito cade in un profondo e provvido sonno.
È questo il momento più favorevole, non per uccidere il gigante, perché nessuno dei sopravvissuti sa come rimuovere il macigno che ostruisce l’ingresso della spelonca, ma per renderlo inoffensivo, costringendolo a liberare il passaggio per consentire il pascolo alle pecore che altrimenti morirebbero. L’eroico Odisseo, con l’aiuto dei suoi guerrieri, dopo avere appuntito un tronco di ulivo e arroventatane la punta, lo conficcano violentemente nell’occhio del gigante che, da disteso su un giaciglio di paglia e fieno, sobbalza rabbiosamente in piedi urlando, sbraitando per il dolore provocatogli dal ceppo infuocato e chiamando in aiuto i fratelli.
“Polifemo perché ti lamenti così tanto, cosa ti succede?”, chiedono infastiditi dalle grida del fratello. “Nessuno mi ha colpito, Nessuno mi ha accecato”, risponde furioso il gigante. Allora i Ciclopi, si scambiano un’occhiata di intesa come per dire che forse il fratello avrà avuto un incubo o un colpo di sole e quindi gli intimano di non disturbarli ancora.
Il gigante, sentendosi abbandonato dai fratelli e dagli dei, giura vendetta. Ma nonostante la indicibile sofferenza, non dimentica i suoi doveri di pastore; rimuove il masso che ostruisce l’ingresso dell’antro e prepara le pecore per il pascolo le pecore. Nel frattempo l’ingegnoso Ulisse e i suoi guerrieri si legano con delle corde sotto il ventre degli ovini, e nonostante Polifemo si assicuri che non tentino la fuga confusi tra gli animali, i greci riescono indisturbati a sortire dalla tetra caverna.
Ritrovata la luce del giorno e il cielo sopra le loro teste, i conquistatori di Troia si liberano dalle funi che li tenevano legati alle pecore e corrono velocemente verso la costa dove li attendono i compagni rimasti a sorvegliare le imbarcazioni.
Appena tutti i superstiti di questa orribile avventura salgono a bordo e le navi prendono il largo, l’astuto Ulisse, rivolto lo sguardo alla montagna su cui si affaccia la grotta del Ciclope, urla coì forte perché lo senta: “Hai creduto che fossimo degli stolti, noi siamo gli Achei che hanno distrutto e saccheggiato la città di Troia e tu sei stato punito per la tua crudeltà; e quando ti chiederanno ancora chi ti ha menomato, rispondi che non nessuno, ma l’astuto Ulisse, figlio di Laerte, re di Itaca!”.