Dopo la frana di Agrigento, Livio Pesce scriveva sul settimanale Epoca: “La frana che ha messo sul lastrico7.787 agrigentini si è manifestata mentre la speculazione edilizia stava conducendo a termine la sua opera. Avevano voluto costruire lassù, nel quartiere dell’Addolarota, pretenziosi palazzidi dieci, dodici, quattordici piani. Una serie di parallelepipedi alti 40 o 50 metri, allineati l’uno all’altro o sparsi fra le vecchie case: assurdi e squallidi monumenti al dio denaro, al culto del milione o del miliardo. Lo chiamavano sviluppo edilizio mentre in realtà era un attentato alla incolumità pubblica. Si sapeva benissimo che il quartiere dell’Addolorata poggiava su una terra bucata come una groviera”.
Era la mattina del 19 luglio 1966, quando una frana ha devastato una parte della città di Agrigento. Non ci sono state vittime, ma quasi ottomila persone, facenti parte di 1.200 famiglie, restarono senza una casa.
Gli anni immediatamente precedenti erano quelli dell’edilizia selvaggia che faceva ergere palazzi e grattacieli, senza curarsi del fatto che Agrigento fosse -come diceva Pindaro– la più bella tra le città dei mortali.
Adesso non è più la più bella, Agrigento, ma ha sempre una sua bellezza. E sarà capitale della cultura nell’anno 2025.
Quest’anno invece è tornata ad essere la città della sete, la città dove l’acqua manca, dove i quartieri fortunati sono quelli nei quali l’erogazione idropotabile viene effettuata ogni otto giorni e i serbatoi di riserva delle abitazioni sono oltremodo capienti.
Fu Akagras e fu Girgenti. Ora, è Agrigento ed ha sete. Cinquantotto anni dopo la frana.