Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta di un cittadino originario di Favara che dovrebbe far riflettere le istituzioni e i politici locali, buoni a chiedere i voti senza apprezzabili risultati una volta eletti.
L. V.
Dopo un’attesa lunga un anno, è finalmente l’ora di tornare in Sicilia, una tradizione che si rispetta da oltre 30 anni nella mia famiglia. Se 20 anni fa il viaggio poteva durare anche dodici ore, ormai si viaggia comodamente, da Firenze a Catania e poi giù per l’autostrada ormai quasi completamente ultimata. La nostra destinazione siciliana non è quella dell’immaginario collettivo, non la zona più blasonata e turistica dei trend di instagram, ma la provincia di Agrigento.
La prima in ordine alfabetico quando a Palazzo Chigi ci si riunisce per parlare di rappresentanza politica nazionale, e l’ultima in assoluto di tutta Italia per quel che riguarda la presenza stessa della politica sul territorio.
La casa che ci aspetta, piena di ricordi e bei momenti che fotografano l’estate, è chiusa da più di un anno, ma a Favara la sera, tutte le sere, si alza sempre una bella brezza, fenomeno geologico che scambia calore tra l’entroterra ed il mare; non vedo l’ora di arrivare ed aprire la casa, dormire col profumo dell’aria siciliana che culla il mio sonno.
L’ingresso in paese dalla provinciale è sempre lo stesso, grandi mostri di cemento armato grezzo ci accolgono gentili, indicandoci la via, luci al neon strabilianti (quasi) come New York ci dicono che la città è viva.
Arriviamo di notte, per strada c’è poca gente ma noto da subito che parrebbe non esserci più lo straziante spettacolo dei cani randagi ad animare le strade favaresi, e quasi quasi mi verrebbe da dire che questa volta l’ho trovata un po’ meglio questa povera cittadina dimenticata da Dio.
Forse forse la nuova gestione comunale per la prima volta ha rispettato (almeno in parte) quanto promesso in campagna elettorale.
Ci addentriamo per le stradine che il nostro accompagnatore definisce “Favara VIP” ovvero il centro storico a due passi dall’unica attrazione vagamente turistica che è la Chiesa Madre, un tempo entità rispettata dalla cittadinanza attiva, e che oggi pare campeggiare desolata su una città fantasma quasi del tutto vuota.
Neanche il tempo di perdersi tra i ricordi e le romanticherie, che siamo già in via San Calogero; qui la parte della città antica sta crollando da circa 30 anni, ed i favaresi a cui è stato chiesto per motivi green di fare la raccolta differenziata porta a porta, sono come al solito recalcitranti al rispetto della legge (qualsiasi essa sia) e della cosa pubblica.
Tra i ruderi mezzo crollati dal retrogusto Baghdad 2003 e che oggi assomigliano alla Palestina bombardata, a qualche favarese è venuto in mente di buttare un sacco nero pieno di spazzatura; non si sa chi, non si sa quando, sappiamo solo che avrà riso pensando di averla fatta in barba alla legge che delegittimerebbe la sua libertà, sarà stato fiero della sua geniale furbizia essendosi liberato del fardello in maniera così intelligente.
Purtroppo di favaresi intelligenti come questo primo immaginario autore dell’opera, è pieno il paese, così ben presto le case di cui rimangono solo porzioni di mura rendendole simili a vasche per lo stoccaggio di rifiuti, hanno attirato molti altri furbi, come le mosche quando c’è da mangiare quel che le mosche mangiano.
Un sacco oggi un sacco domani, nel giro di pochissimo, il monte di spazzatura è divenuto l’inquilino principe di via San Calogero, e come nella favola del topo e del porco spino, per qualcuno l’odore nauseabondo di decomposizione, emanato dalla montagna di spazzatura, che scandiva lo scorrere delle giornate favaresi, è diventato scomodo.
Ecco che un altro genio, figlio di questa città, attua così un piano perfetto: 5€ di benzina dal benzinaio più vicino, ed un fiammifero, così l’immondizia si smaltirà da sola (deve aver pensato). Pochi minuti dopo la genialata, il rogo tossico si elevava di pochissimo essendo costituito da plastica e residui pesanti di ogni tipo, il fumo è pesante perfino per la brezza di cui sopra, avvelenandola di un odore acre ed insostenibile.
Si avvinghia ai muri, entra nelle finestre, passa dalle fessure delle porte; gli occhi frizzano ed il naso indica che non sia salubre continuare a respirare così. Col solito pugno in pancia ci accoglie Favara al nostro ritorno, e per non disturbare nessuno andiamo mestamente a dormire.
Stamattina, al terzo giorno di fumo tossico, la situazione si è risolta con l’intervento definitivo dei vigili del fuoco, ed almeno stasera si potrà dormire con le finestre aperte; sperando che dopo trent’anni qualcuno voglia intervenire sul disastro ambientale della discarica a cielo aperto in pieno centro abitato nei pressi di via San Calogero.
Colpisce l’indifferenza generale, e lo stupore negli occhi del sindaco, che evidentemente assorto dal lavoro non si era accorto che a cento metri dal suo ufficio il fumo nero cingeva la cupola della cattedrale.
Così con questa indifferenza e con questo stupore di chi non sapeva e non aveva visto, questa città, ed ogni cittadino che la abita, lentamente muore avvelenato dall’ignavia.