Magistrato ad Agrigento per 30 anni, quando egli presiedeva udienze lunghe ed estenuanti, le sospendeva qualche minuto, dicendo: “’U tribunali si va piglia ‘u cafè”. Amico del giornalista Mauro De Mauro, è stato giudice istruttore del processo Tandoj
L’inizio della carriera
Serafino Tumminello è nato a Pollina (nelle Madonie) il 16/6/1923 ed è morto ad Agrigento il 25/09/1991, ovvero 33 anni fa come oggi.
Inizia la carriera di giudice nel 1952 come Pretore a Nuoro, in Sardegna.
Tornato in Sicilia, giunge ad Agrigento, dove fa prima il giudice istruttore dei processi civili, poi di quelli penali, poi ancora il giudice penale ed infine il procuratore capo.
Nella qualità di giudice istruttore dei processi penali, gli tocca istruire il processo Tandoj, venendo così a scervellarsi sullo svolgersi di un misterioso pezzo di storia politica, culturale e socio-economica locale, su cui rimangono tuttora ombre non del tutto chiarite.
Non è facile preparare il fascicolo da trasmettere al giudice del dibattimento presso la corte d’assise che si occupa dell’uccisione di un poliziotto che, sino a qualche mese prima del trasferimento a Roma, è stato capo della squadra mobile di Agrigento.
Il caso Tandoj
L’omicidio avviene il 30 marzo 1960 nel centralissimo viale della Vittoria di Agrigento, dove Tandoj suole tornare, poiché la moglie è temporaneamente rimasta lì per meglio occuparsi del trasloco e di altri affari familiari.
Sta per l’appunto passeggiando con la moglie, quando un sicario lo fredda con tre colpi di pistola. Un proiettile, di rimbalzo, colpisce ed uccide anche un giovane studente che si trova a passare di lì casualmente, Antonio Damanti detto Ninni, la cui mamma disperata giunge sino al Presidente della Repubblica per chiedere ed ottenere giustizia.
Nel corso delle indagini, gli inquirenti scoprono che la moglie di Tandoj è l’amante di Mario la Loggia (direttore dell’ospedale psichiatrico e fratello del presidente della regione) che viene prima arrestato e dopo rimesso in libertà, quando gli inquirenti abbandonano il movente passionale e seguono la pista mafiosa. Vengono così rinviati a giudizio 22 mafiosi di Raffadali, tra cui il loro capo come mandante.
Il processo viene poi spostato, per legittima suspicione, presso la corte d’assise di Lecce, che nel 1968 pronuncia 22 condanne, di cui 8 all’ergastolo.
Verdetto poi confermato dalla Corte d’Assise d’Appello e, il 28 febbraio 1975, dalla Corte di Cassazione.
Nella lunga vicenda giudiziaria, il giudice Tumminello è forse il primo a capire che bisogna abbandonare il movente passionale -su cui avevano all’inizio lavorato concordemente questura, comando dei carabinieri e procura- per dedicarsi alla pista mafiosa, come poi finalmente avviene, specialmente dopo l’invio ad Agrigento del procuratore Fici che avoca a sé l’inchiesta, rendendo così più facile l’istruttoria condotta da Tumminello che nel 1963 incontra il giornalista Mauro De Mauro -con cui aveva rapporti cordiali- per un approfondito scambio di opinioni sul movente mafioso del delitto.
Giudice civile, penale e poi procuratore capo
Successivamente, Tumminello passa alla magistratura giudicante e talvolta presiede il collegio.
In quest’ultima funzione, quando c’erano udienze lunghe ed estenuanti, egli era solito ad un certo punto sospendere i lavori, comunicando a tutti i presenti: “’U tribunali si va piglia u cafè!”. Si alzava e gli altri giudici, loro malgrado, erano costretti a seguirlo, talvolta insieme agli avvocati.
Diviene Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento ed esercita la carica dal 1976 al 1983, sino a quando si candida al Senato, nelle elezioni politiche del 26 giugno1983, con la lista del Partito Socialista Italiano, ottenendo ben 21.379 voti di preferenza, ma non venendo eletto.
Da Capo della Procura di Agrigento, teneva la porta del suo ufficio sempre aperta. Aperta -materialmente, non metaforicamente- a tutti: non solo ai magistrati e ai cancellieri, ai dirigenti di polizia e agli ufficiali dei carabinieri; ma anche a quisque de populo. A qualunque uomo della strada che invocasse giustizia per un torto subito.
Nell’ufficio del Procuratore Capo si poteva entrare liberamente, senza farsi annunciare da commessi e senza filtri di dirigenti generali. E si poteva parlare direttamente con lui, sempre in giacca, camicia, cravatta e bretelle.
Serafino Tumminello conclude la carriera di magistrato quale Sostituto Procuratore presso la Corte d’Appello di Caltanissetta, dove resta sino alla fine degli anni ottanta, passando poi a miglior vita il 25 settembre del 1991.
Le esequie funebri
Il funerale si svolge ad Agrigento, nella chiesa di san Domenico. Una chiesa semi-vuota, tanto che un avvocato sbotta: ”Se Tumminello fosse morto da Procuratore di Agrigento, la folla in questa chiesa non si sarebbe potuta contenere!”.
Fanno però storia le lacrime del giudice Rino Cirami che porta in spalla la bara. Cosa che non ha potuto fare Rosario Livatino (il migliore dei sostituti del procuratore capo di Agrigento, Tumminello), trucidato dalla mafia l’anno prima.
E fanno storia la tristezza infinita dei penalisti più noti dell’epoca, dall’avvocato Peppino Grillo all’avvocato Peppino Di Fede e all’avvocato Salvatore Russello.
Quest’ultimo, anzi, si sente in dovere di mettere per iscritto -il giorno dopo la sua morte- un ricordo vivo e genuino del Procuratore, nella rubrica spazio aperto di un noto quotidiano siciliano, con un coinvolgente e vibrante articolo dal titolo: “Addio a Serafino Tumminello, grande esempio di magistrato umile, umano ed integerrimo”.
Nella foto (anno 1963): il magistrato Serafino Tumminello mentre parla col giornalista Mauro De Mauro -rapito da Cosa Nostra il 16 settembre 1970 e mai più ritrovato- in una sala del Tribunale di Palermo.