Filippo Sciara
Caltafaraci è una montagna di 533 m d’altitudine, dalle pareti molto scoscese, nelle immediate adiacenze a nord-ovest dell’aggregato urbano di Favara. Si presenta ricchissima di testimonianze archeologiche che vanno dalla prima età del bronzo (1900 – 1450 a.C. circa) fino al XIII sec., e costituisce una delle più interessanti aree di tutto l’Agrigentino.
Per quanto riguarda l’etimologia del nome, i pareri sono contrastanti. Alcuni lo fanno derivare dall’arabo qual’at-al faragiah che significa la rocca della veduta piacevole; altri dall’arabo qual’at-Ferag con significato di rocca o castello di Ferag, o con significato di rocca del cavaliere. La leggenda popolare lo fa derivare dalla voce Cantafaragiù, per l’esistenza nel luogo, in un tempo imprecisato, di un ricco e allegro signore, di nome Faragio, che passava le sue giornate cantando.
Recentemente, nelle pagine di questo giornale Sicilia On Press, in data 8 marzo 2020, il Prof. Calogero Saverio Vinciguerra, riportando un passo di Plutarco, che riferisce di una città greca Neapolis, posta nel territorio agrigentino, dove si sarebbe accampato Farace, condottiero spartiata, al tempo della guerra civile di Siracusa (357 a. C.), propone di identificare la città greca che si trova sulla collina di Caltafaraci con la sopradetta Neapolis e il suffisso faraci come toponimo rimasto nella cultura popolare a ricordo del passaggio del condottiero spartiata Farace.
Che l’etimologia sia di origine araba, non ci sono dubbi, almeno nel prefisso Calta che troviamo già presente in un documento del 1299 dove si legge Caltayaragiu. Ferag è stato individuato in un certo Farag, eunuco di Al Mansur, principe fatimita d’Africa, che venne mandato da questi, come condottiero di un poderoso esercito, in aiuto dell’emiro Al Hasan ibn Alì, governatore di Sicilia. Come si legge nella cronaca di Ibn àl Atur, Al Gazari, egli era stato preposto da Al Mansur stesso, dal 23 luglio 947 al 17 maggio 953. Dalla cronaca di Cambridge, apprendiamo che Farag portava il nome di Muhaddad e veniva detto schiavone. Arrivò in Palermo dall’Africa il 2 luglio 951 recando con sé poderose forze di terra e di mare. Il 12 dello stesso mese Al Hasan mosse con le forze unite di siciliani e africani, contro Reggio, in Calabria.
Alla luce di tutto questo, pensiamo sia da escludere l’identificazione di Faraci con il sopramenzionato Farag, perché non possediamo nessuna prova, neppure labile, che leghi il condottiero arabo alla storia di Agrigento. Potrebbe tuttavia trattarsi di un omonimo, meno famoso del condottiero sopranominato, o riferirsi al significato di gioia che il termine Farag ha nella lingua araba. In questo caso abbiamo qual’at-al farag con significato di rocca o castello della gioia, che sembra confermare la tradizione popolare favarese che riferisce della presenza di un allegro (gioioso) signore di nome Faragio.
Al prof. Vinciguerra facciamo notare che non abbiamo nessuna certezza che la città greca di Caltafaraci corrisponde alla Neapolis ricordata da Plutarco. Rileviamo, inoltre, che tale identificazione non può essere fatta, se si considera che la Neapolis ricordata da Plutarco nel IV secolo a. C., era di recente fondazione (Neapolis in lingua greca significa proprio nuova città), mentre l’insediamento greco sulla collina di Caltafaraci è documentato da reperti archeologici, a partire dal VI secolo a. C. Aggiungiamo che Caltafaraci, nel periodo Greco, si poneva, non come abitato di nuova fondazione, ma come centro di colonizzazione greca, essendo già presente un abitato indigeno, preesistente all’arrivo dei Greci.
Le più antiche testimonianze umane sulla montagna risalgono alla prima età del bronzo (1900 – 1450 a.C. circa), come ci testimoniano le tombe a grotticella artificiale o a forno, scavate nella viva pietra, presenti sul versante nord-ovest, e ancora nella limitrofa contrada Petrusa. Sempre nella zona nord-ovest della montagna si riscontrano anche frammenti di ceramica della prima età del bronzo e medio bronzo (1450-1250 a.C. circa). Alcuni manufatti in terracotta, provenienti da Caltafaraci, e riferibili al medio e tardo bronzo (1250-1000 a.C. circa), sono conservati al Museo Archeologico Regionale di Agrigento. A giudicare dalle numerose tombe e dalla ceramica, un villaggio preistorico è esistito a Caltafaraci e rimane ancora tutto da scoprire. Numerosi si trovano, sul pianoro della montagna, i frammenti di ceramica del periodo della colonizzazione greca, dello stile Sant’Angelo Muxaro-Polizzello e riferibili a popolazioni indigene (VII-VI sec. a.C. circa).
Il toponimo Faraci-Farace, molto diffuso in tutta la Sicilia, utilizzato anche come cognome di persona, non fornisce, da solo, alcuna testimonianza sicura per la sua identificazione con il nome del condottiero spartiata Farace.
Lo troviamo, infatti, come toponimo o cognome di persona, nei territori di Palermo, Morreale, Alcamo, Altavilla Milicia, Castroreale, Floridia, Mazzarino, Aci Sant’Antonio, Gela e Favara.
Esistono nel territorio agrigentino numerosi abitati del periodo Greco, che potrebbero identificarsi con la Neapolis ricordata da Plutarco. L’archeologo Giuseppe Castellana ha proposto l’identificazione di Neapolis, un centro nuovo nel IV secolo a. C., con i resti greci presenti sulla collina di Castellazzo, nel territorio di Palma di Montechiaro: si veda G. Castellana, La Neapolis nella chora acragantina e la colonizzazione dionigiana della Sicilia, in La parola del passato, 1984, pp. 375-383.
Ritornando all’origine etimologica di Caltafaraci è da prendere in considerazione, a nostro avviso, una famiglia ebrea di Agrigento di nome Faragia. Se ne ha notizia nel XIII sec. e precisamente nel periodo Angioino. In un documento della cancelleria angioina del 1269 si riferisce: «Magistro Faragia, iudeo de Agrigento, et fratribus (…) in curia nostris servitiis commorabantur». Da altri documenti apprendiamo che questo Magistro Faragia visse, per un periodo di tempo, alla corte angioina di Napoli come traduttore dall’arabo al latino. Non è azzardato credere che il ricco e allegro signore, di nome Faragio, che avrebbe dato il nome alla contrada, di cui riferisce la tradizione popolare di Favara, potrebbe appartenere a questa famiglia.
Abbiamo dimostrato che toponimi del periodo Bizantino (V-VI sec. d. C.) hanno resistito 1500 anni e sono stati conservati dalla tradizione popolare dei Favaresi, come quelli legati ai possedimenti di Gregorio Magno papa (Roma 540-604 d. C.) nel territorio agrigentino, cioè Cinciana, San Gregorio, Santo Stefano e Trazzera del Papa, ancora oggi riscontrabili: si veda F. Sciara, I possedimenti di Gregorio Magno nell’Agrigentino e l’insediamento bizantino nel territorio di Favara, in Atti del convegno internazionale di studi Sicilia millenaria dalla microstoria alla dimensione mediterranea, Montalbano Elicona ottobre 2015, Reggio Calabria 2017, pp. 505-540.
Che la rocca possa essere stata legata, come proprietà, alla famiglia ebrea Faragia di Agrigento nel XIII sec., o forse ancora prima, non possiamo quindi escluderlo, anche se nell’agosto 1299 Caltafaraci, detta Caltayaragiu, apparteneva alla nobildonna agrigentina Marchisia Prefolio, genitrice dei famosi Chiaromonte di Sicilia.
Il termine yaragiu, al posto di Faragiu, può essere dovuto a un errore del copista, visto che nei secoli successivi troviamo sempre Faragiu. Il nome di Caltafaraci viene dato più precisamente alla contrada che si estende alle falde a ovest della montagna, dove esistono i resti di una torre medievale, che era legata al casale medievale di Caltayaragiu.
La montagna vera e propria, con le sue due sommità (533 m e 516 m) viene chiamata genericamente ’a muntagna. Con il termine Rificia o Refice si indica la contrada che va dalla sommità meridionale (516 m) alla contrada Caltafaraci propriamente detta.
In definitiva non è facile chiarire se Faraci derivi dall’arabo Faragiah, con significato di veduta piacevole, o dall’arabo Farag con significato di gioia, o sia piuttosto legato alla famiglia Faragia di Agrigento. Il prefisso Calta di origine sicuramente araba fa pensare che anche il suffisso Faraci lo sia.
La scoperta del castello arabo di Caltafaraci, da noi recentemente effettuata, chiarisce definitivamente le origini etimologiche arabe dello stesso toponimo.
Con l’arrivo degli arabi, nel territorio di Favara si verificò, come sicuramente in altre parti della Sicilia, una frattura con il periodo precedente, con scomparsa di molti insediamenti, che non presentano continuità di vita. Tuttavia, in questo periodo, nel territorio di Favara, si registrava la nascita di nuovi insediamenti in aree con spiccate caratteristiche strategiche e difensive, che erano state emarginate dal precedente insediamento romano – bizantino. Solo l’archeologia potrà chiarire se questo fenomeno di arroccamento sui siti fortificati d’altura è avvenuto nella fase finale del periodo Bizantino, a causa delle incursioni piratesche dei popoli nordafricani sulle coste siciliane, o in pieno periodo Arabo, forse in relazione con il famoso rescritto del 967 del califfo fatimida al -Mu ̔izz, con il quale ordinava all’emiro ̓Ahmad di rifabbricare le mura della capitale (Palermo) e di costruire per ogni distretto della Sicilia una città fortificata, che spinse forse gli abitanti delle campagne ad occupare i siti d’altura con spiccate caratteristiche strategico difensive. Si trattava di creste e cuspidi rocciose poste in zone impervie e non, il cui carattere strategico e difensivo prevaleva nettamente sulle condizioni di amenità del sito. Nel periodo Arabo, questi siti d’altura vennero utilizzati, come qalᶜa, termine arabo, da cui origina il siciliano Calta o Calata, con significato di castello, posto a difesa degli abitati che erano presenti alla base e forse anche per il territorio circostante.
Un abitato medievale arabo e normanno, nel XV secolo facente parte del territorio di Favara, oggi compreso in quello di Comitini, rivela nel toponimo, la sua antica origine di qalᶜa, cioè la Petra di Calathansunderj (fig. 1). Anche Caltafaraci, presso Favara, si presenta come una cuspide rocciosa (fig. 2), con le stesse caratteristiche morfologiche dei castelli arabi detti qila (al plurale), con alla base sempre un abitato arabo. Numerosi sono inoltre i siti siciliani, che nel toponimo presentano il prefisso Calta o Calata e risultano legati a una emergenza rocciosa, con la medesima conformazione dei castelli di pietra ora elencati. Per tutti ricordiamo la cuspide rocciosa del castello di Caltabellotta e quella di Caltanissetta, presso il castello di Pietrarossa.
Sappiamo che nei territori dell’Andalusia araba e del Magreb, i qila indicavano generalmente delle fortezze di grandi dimensioni, vere e proprie cittadelle fortificate, poste in siti particolarmente inaccessibili, dallo spiccato valore strategico e difensivo. Per la Sicilia abbiamo una realtà diversa, come riferisce anche Ferdinando Maurici: «Nell’isola la sfumatura di significato relativa al sito è sempre confermata, mentre non può dirsi lo stesso, come si vedrà meglio, per le dimensioni e l’importanza di almeno alcune qila siciliane». Siamo del parere che i qila del periodo Arabo, in Sicilia, furono in genere dei piccoli castelli di pietra al naturale inaccessibili, in qualche caso modificati da escavazioni e costruzioni di pietra a secco affiancate alla base, posti in zone impervie e dirupate, dallo spiccato valore strategico e difensivo. Interessante è in merito il significato che, già nel 1723, Giovanni Battista Caruso dava al termine Calata, nel 1790, riproposto da Rosario Gregorio. Nella prefazione alla Cronaca di Cambridge, il Caruso, nella sua Bibbliotheca Historica regni Siciliae, riporta: «Calata locus est natura potius quam arte munitus qui aliquo modo arx potest dici; huius conditionis multa sunt Oppida in Sicilia adhuc habitata; talia sunt Calatafimi, Calatanissetta, Calatajeronos, Calataxibetta, et inter alia Calatabuturum, et Calatabillotta, sive Calatabellut, quae in Chronico citata reperiuntur». Al momento della conquista normanna i qila della Sicilia araba vennero in parte abbandonati, in parte mantenuti con le stesse caratteristiche morfologiche e funzionali, in parte incrementati con castelli in muratura che vennero affiancati alla emergenza rocciosa, che era stata la loro originale essenza. Vedasi i citati esempi di Caltabellotta e Caltanissetta.
Premesso tutto ciò, ci trasferiamo adesso in contrada Caltafaraci, nei pressi a ovest di Favara, dove alla base di una cuspide rocciosa, posta a circa 500 metri d’altitudine, in una zona molto impervia, abbiamo scoperto una struttura quadrangolare realizzata con pietre informi, confezionate a secco, rinzaffate da terra battuta, delle dimensioni di 13 m x 13 m, con uno spessore murario, in alcuni punti di 80 cm, in altri di 1,50 m, con una altezza media di 1,50 m, in alcuni punti anche 2 m. La struttura, che aveva forse l’ingresso posto in alto, utilizzabile tramite una scala di legno retrattile, come lato sud, sfrutta proprio la cuspide rocciosa, con un richiamo evidente ad un’altra simile struttura presente sulla Rocca Castelluccio del territorio di Favara. È presente un recinto realizzato in pietra confezionata a secco, affiancato a est, dove abbiamo riscontrato ceramica invetriata policroma e monocroma verde dei periodi Arabo e Normanno.
La struttura quadrangolare in pietra a secco assieme alla cuspide rocciosa di Caltafaraci, si identifica, con il qalᶜa arabo, che aveva significato di castello, come conferma anche la ceramica araba e normanna riscontrata nei pressi. Questa scoperta è di eccezionale valore storico perché chiarisce e avvalora le origini etimologiche arabe del toponimo Caltafaraci. Rileviamo una origine araba, oltre che nel prefisso Calta, dall’arabo qalᶜa con significato di castello, anche nel suffisso Faraci che indica il nome dello stesso.
Faraci potrebbe derivare dall’arabo faragiah, con significato di veduta piacevole (dal luogo si gode un vasto panorama fino al mare); dall’arabo farag con significato di gioia o con indicazione del proprietario che lo ha posseduto, nel nostro caso forse un componente della famiglia Faragia di Arigento, di origine ebrea, ricordata nel 1269, come sopra abbiamo detto, che conosceva benissimo la lingua araba, ancora nel XIII secolo, visto che veniva impiegata a Corte da Carlo I d’Angiò, per la traduzione dall’arabo al latino. Questo interessante particolare ci suggerisce che questa famiglia ebrea di Agrigento doveva essere di origine araba, probabilmente sopravvissuta alla diaspora degli Arabi verso le coste del Nord Africa, in seguito alla conquista della Sicilia da parte dei Normanni. Lo stesso etimo Faragia tradisce un’origine araba con derivazione da Faragiah o Farag, termini molto simili linguisticamente e anche nel significato: piacevole, gioioso. In definitiva non è azzardato credere che a possedere il castello di Caltafaraci, nel periodo Arabo (827-1066 d. C.), e forse anche dopo, sia stata proprio la famiglia Faragia di Agrigento, che ha dato il nome allo stesso.
Questo abitato con il castello, abbandonato forse nel periodo Svevo, rinasceva a valle, nei pressi di una sorgente d’acqua, attorno a una torre, in relazione con un casale detto sempre di Caltafaraci, di cui si ha notizia nel 1299. Nel documento si legge: «In primis casale unum, quod vocatur Caltayaragiu, situm et positum in territorio Agrigenti, et in contrata quae dicitur Fabaria, cum omnibus juribus et pertinentiis suis, quod dividit ab una parte cum praedicto casale Fabariae, ab altera cum casale Suega, et cum terris haeredum quondam don Ordoi de Augustino, et aliis confinibus». Per maggiori approfondimenti si veda F. Sciara, L’insediamento arabo-normanno e svevo nel territorio di Favara presso Agrigento, in Atti del convegno internazionale, Nelle terre dei Normanni, La Sicilia tra Ruggero I e Federico II, Caltanissetta 2015, pp. 115-139.
Foto pubblicate: Cuspide rocciosa del castello arabo di Petra Calathansunderi. Cuspide rocciosa del castello arabo di Caltafaraci.