Giuseppe Maurizio Piscopo
Com’è stato possibile che un giorno Stefaninu Cuppularu mentre faceva il militare a Torino scrisse una cartolina alla madre senza indirizzo con la sola scritta:” A me ma darrè a chiazza” e la cartolina venne consegnata alla madre puntualmente a Favara. Tutto questo per me resta un mistero inspiegabile. Stefano disegnava con la matita e con la mano sinistra. I suoi ritratti sembravano venissero fuori dalle mani sicure di un pittore navigato, che aveva studiato a Parigi nella Ville Lumierè. Stefano era un ritrattista nato, gli bastava un solo colore, il nero per dipingere il mondo, quel mondo che aveva dentro l’anima. Era un artista, ma non aveva la voce, né le parole dotte per farsi ascoltare dalle persone istruite di allora. I suoi amici erano solo i cani. E se qualcuno gli offriva qualcosa, prima pensava a loro e dopo pensava a se stesso. Sembrava un uomo triste dal carattere chiuso. Eppure l’ho visto sorridere un giorno di carnevale. Era vestito da giovane donzella, truccato e con le labbra rosse, con un abito colorato luccicante ed una borsa piena di caramelle che avrebbe voluto offrire ai bambini, ma che nessun bambino accettava. Li vedevo i piccoli che erano incuriositi dal volto di quell’uomo che sembrava fuori dal mondo, nato in un momento sbagliato, in un paese strano e talvolta dispettoso. I grandi allontanavo i bambini da Stefano e li invitavano con durezza a non accettare quelle caramelle. Ma Stefano non se la prendeva più di tanto e continuava per la sua strada, continuava a cantare una strana canzone che ho sentito solo da lui, che parlava di una mamma lontana che abbracciava suo figlio prima che partisse per la lontana Merica… Un giorno l’ho visto sull’autobus davanti, in prima fila, in piedi con i capelli lunghissimi, con i compagni e la bandiera rossa, credo che andasse a Palermo ad accogliere Enrico Belinguer. Lo fotografarono pure sul Giornale di Sicilia…
Scrive Carmelo Antinoro nel suo blog sulle tradizioni favaresi:
“Di Salvo Stefano, più noto come Cuppularu nacque a Favara il 16 maggio 1918 da Stefano (figlio di Filippo del quartiere S. Michele di Girgenti) e Angela Galiano (di Diego e Brigida Castronovo).
Dopo avere perso il lavoro di custode del gabinetto pubblico, fu coinvolto in un attentato a Palermo ed arrestato; ma non passò molto tempo e fu rimesso in libertà. Abitava alle spalle della chiesa del Purgatorio. Trascorse una vita di stenti e miserie, avendo solamente i cani come amici fedeli, con i quali dormiva, mangiava e dialogava. Usciva la mattina di buonora per strada, con al seguito i suoi cani, a cercare nei quartieri, tra i rifiuti, qualcosa di utile da raccogliere per andarlo a vendere e, con i soldi che racimolava riusciva ad avere un frugale pasto.
Stefano Di Salvo, capellone spontaneo, può ritenersi uno dei primi uomini hippy, quel movimento giovanile nato negli Stati Uniti d’America negli anni 60 che poi si diffuse in tutto il mondo. Animava il carnevale esibendosi, qualche volta, solitario in danze e ritmi, accompagnato dal suono di un giradischi. Sapeva dipingere e tanti studenti spesso ricorrevano a lui per i disegni. Di indole buona, non infastidiva mai nessuno e, di contro, spesso dei bulli lo schernivano.
I suoi ultimi giorni furono rattristati dalla cecità e si spense nella solitudine e nell’indigenza il 10 gennaio del 1993”.
Pittori ed artisti si sono ispirati a Stefano e con le loro poesie ne hanno tratteggiato il carattere e la personalità.
Raimondo Presti da Genova, racconta in una sua poesia, che Stefano abbaiava alla luna e pisciava contro i muri senza luce, rubava storia e cultura dalle persone, masticando la sua vita di zingaro poeta. Ai cani parlava di Montale, Pirandello, Schopenhauer e Dostoevskij . Si addormentava con la luce di una candela che si consumava come la vita che faceva…
Pino Bullara scrive a proposito dei suoi cani:-
“Come erano puliti messi nella carrozzina. La piccola con la coppolina era troppo bella. I più grossi mi correvano davanti ed io volevo bene tutti quanti. Quelli piccoli mi giravano intorno, nessuno era più contento di me in questo mondo. Un tozzo di pane lo trovavo in tutte le strade, mi bastava per sfamare me e i miei cagnolini. Questa era la mia vita non ebbi mai pretese. A me piaceva stare con i miei cani. Erano più affettuosi loro che le persone”.
Anch’io da giovane ho voluto scrivere una ballata su Stefano che mi affascinava. Nel 1986 sono stato a New York, ero ospite di amici e parenti ed ogni sera mi chiedevano di cantare le canzoni che ho dedicato ai personaggi del mio paese: “Per la festa di San Giuseppe”, “Lu curtigliu di setti curtiglia” e soprattutto “La Ballata dedicata a Stefaninu”. Si era sparsa la voce e le persone si spostavano dagli altri quartieri della grande mela per sentirmi. Volevano ascoltare la canzone di Stefano accompagnata dalla fisarmonica che comincia così:
“Iu partu e mi nni vaiu clandistinu,
l’amici li salutu ad unu ad unu
e lassu stu paisi malandrinu,
travagliu n’un ci nn’è mancu pi unu.
Ca a la Favara sugnu amatu e caru
iu sugnu Stefaninu u cuppularu
e vivu e campu mezzu un munnizzaru
primu cuscinu di lu Gibilaru.
Sintennu ca lu chiummu avia crisciutu
finu a Germania si nn’havia scappatu
a Cicchiddru mezzu mortu fu truvatu,
di li so cani stessi fu sarvatu.
Cu li cagnoli pronti e anmaestrati,
a Stefanu lu viditi mezzu i strati,
arriva sempri cu lu passu moddru
è Stefaninu cu lu saccu ncoddru.
Sono trascorsi 27 anni dalla scomparsa di Stefaninu.
Il mondo è cambiato. Non si riconosce più. Certe notti penso alla sua voce, al suo sorriso, ai suoi cani che non l’hanno mai abbandonato e gli sono sempre stati fedeli nella buona e nella cattiva sorte. Penso alla battaglia che nacque negli ultimi giorni della sua vita per offrirgli un alloggio dietro il castello. Penso a quei bambini che avrebbero accettato con gioia le sue caramelle e l’avrebbero abbracciato, perché i bambini sono più avanti dei grandi e guardano molto lontano e vedono quello che i grandi non riescono a vedere. I bambini continuano a giocare, anche se arriva la pioggia…Quella pioggia che continuava a cadere mentre Stefano coccolava i suoi cani e li chiamava per nome uno per uno…
Foto dell’architetto Carmelo Antinoro e di Filippo Bosco