Giuseppe Maurizio Piscopo
La piazza Madrice a Favara storica città d’Arte intorno agli anni 50 era un vero Teatro popolare all’aperto dove i personaggi si muovevano, si incontravano, partivano alla ricerca di un mondo incantato con le loro piccole storie di viaggiatori di provincia.
Quella piazza è stata sempre il centro dei miei sogni: ogni volta che passavo da lì avevo sempre lo stesso chiodo fisso in testa, pensavo che un giorno, da grande sarei andato via, sarei partito anch’io alla volta di una grande città per seguire la moda e le donne, per fare il sarto per signora, il mestiere che ho amato di più nella mia vita.
Questo sogno si è infranto molto presto, perché il mio sarto che amava tanto le carte, una sera perse tutto a zichinetta il negozio e i vestiti, le maledette carte donna cavallo e re ed io mi trovai senza un mestiere per le mani e a piangere in piazza, dove c’era mastro Agostino un grande barbiere compositore, che vedendomi piangere uscì dalla bottega con uno sguardo paterno.
Raccontai la mia storia e lui mi disse di non piangere, “Chi gioca a carte prima o poi si brucia” disse sorridendo come uno che conosce il gioco della vita, poi tirò fuori la chitarra e il mandolino e suonò solo per me un brano indimenticabile. Il mio sarto partì per Palermo con una macchina di piazza, per recarsi nella lontana Merica e mantenne la parola così come aveva promesso. Se perdo questa partita a carte vado via per sempre da questo paese aveva detto a tutti. Durante il viaggio disse solo poche parole all’inizio. Quel giorno fuori pioveva a dirotto e le campane suonavano a morto. Fumò una sigaretta e guardando la cupola e la bellezza della chiesa Madrice sorrise e rivolgendosi mestamente all’autista disse: “Con le carte mi potrò sempre rifare, per la morte c’è tempo”!
La vita di quella piazza mi attraeva, sempre viva e piena di gente sorridente, con le mani piene di oggetti, con una chiesa maestosa, la banca, il negozio di stoffe di Simone, la farmacia Bongiorno, una gioielleria e i dodici Apostoli così come la gente chiamava affettuosamente gli autisti di piazza che erano come le persone di famiglia e venivano chiamati per nome uno per uno.
Gli Apostoli iniziavano il loro lavoro alle prime luci dell’alba. Allora andare ad Agrigento costava cento lire, un biglietto di sola andata. In quei tempi per stabilire chi doveva partire per primo si diceva:- “Cu è avanti macina”. Gli autisti di piazza erano amici e buontemponi, uno più spiritoso dell’altro. Se il regista Mario Monicelli li avesse conosciuti avrebbe potuto girare il seguito di “Amici miei”.
Per portare i lettori di Sicilia On Press in questo viaggio nel tempo dell’infanzia e dei ricordi mi sono avvalso della collaborazione di quattro figli d’arte. Ecco le loro testimonianze.
Renato Bottone racconta suo padre.
Mio padre faceva il noleggiatore ed aveva una Fiat 1500 a sei cilindri di colore bordeaux e la tenne per due anni, poi prese una Fiat 1400 prima serie nel 1955. Alcune volte le persone affittavano le macchine per i funerali per il trasporto dei fiori, ghirlande e corone. E le affittavano anche per i matrimoni. A Favara i funerali ed i matrimoni hanno avuto sempre un tocco di classe ed un grande fascino per tutti i ceti sociali ed hanno rappresentato i momenti più solenni della vita del paese.
Certe volte il lavoro era così tanto, che gli autisti non rientravano a casa per il pranzo e la sera ritornavano intorno alle ore 20,00 e certe volte anche dopo la mezzanotte. Viaggiavano con qualunque tempo. Gli autisti di Favara avevano buone relazioni con gli autisti palermitani che mettevano gli scooby doo nella sterza per distinguersi dal resto del mondo come sanno fare solo loro. Un particolare degli autisti di piazza Madrice era questo: portavano le loro macchine ad Altamura e a Vercelli per allungare i sedili per trasportare più persone. Andavano in queste città con più macchine perché per completare il lavoro c’era un’attesa lunga di 40 giorni, con un costo pattuito di 750.000 lire prima degli anni 60, dopo il 60 il costo aumentò a un milione e mezzo. Gli autisti di piazza Madrice la domenica avevano stabilito che sei di loro andavano a riposo, mentre gli altri si recavano a Palermo, Messina o in altri posti a secondo delle richieste.
Le persone si spostavano per bisogno o per malattie, qualcuno veniva accompagnato all’aeroporto. In queste auto potevano viaggiare comodamente 10 persone. Ogni tanto la polizia fermava mio padre e stilava un verbale. Le auto per legge potevano trasportare solo 7 persone. Mio zio Saro Moscato fu noleggiatore negli anni 28 e 29. L’ultima macchina l’abbiamo acquistata a Sciacca nel 1971 una 1800 blu e una nera strapuntinata. Ricordo, ancora le targhe: Ag 14047 e l’altra Ag 14048 costo duemilioni e otto con l’accessorio portapacchi costato 7000 lire.
Renato Bottone risponde ad una mia domanda:
Che cosa provi quando passi da piazza Madrice?
Tanta emozione e soprattutto tanta malinconia. In quella piazza si svolgeva tutta la vita e le relazioni della mia città. Molte persone prima di salire in macchina entravano in chiesa per una preghiera. Ogni venerdì anch’io entravo in chiesa. E’ un ricordo della mia infanzia che non posso cancellare.
Ma vediamo cosa succedeva in piazza Madrice in una di quelle giornate di partenza…
La zia Vincinzina che aveva 85 anni era ancora era vegliarda. A tavola beveva un bicchiere di vino rosso, non era mai andata né in ospedale, nè dal dentista e i denti erano tutti suoi, tutti sani. E ci vedeva benissimo. Non aveva mai portato gli occhiali. Andava in chiesa per abitudine, tanti lo fanno ancora, ma non si fidava dei preti e a bassa voce ai suoi nipoti diceva quello che non è scritto nelle sacre scritture:- “Monaci e parrini viditi a missa e po stoccaci i rini”. Quando aveva qualche bicchiere in più, tirava fuori tutto il repertorio di proverbi che sapeva sui preti:- “Un c’è festa e un c’è fistinu senza monacu e parrinu, un c’è festa e un c’è fistuni senza Giugiu Maccarruni”… Certe volte continuava e si spingeva più avanti del consentito: “Quannu fu fatta la chiesa Madrici ora si cunta e ora si dici, ca u papa di Roma li grana mannava e qualcunu cchiù spertu si l’ammuccava, finu ca un iornu si dissi a Rineddra ca du parrina si traru i cuteddra”. Un giorno la zia Vincinzina si recò in piazza Madrice in attesa dell’autobus per Agrigento. Quel giorno c’era lo sciopero degli autobus. In cuor suo avrebbe preferito viaggiare con l’auto di piazza ma non sempre trovava posto. C’era sempre la fila. Si avvicinò al signor Salvatore Bottone che stava partendo per Agrigento e gli chiese se per favore poteva salire davanti perché aveva i disturbi che hanno le donne anziane. Come lei altre vecchie signore avevano la stessa esigenza quella di accomodarsi davanti. E il signor Bottone con calma e gentilezza che lo distingueva senza perdere la pazienza, si fermò a parlare con lei e con le altre signore ponendo un quesito preciso: – “Signu, mi diccissi na cosa: un chichireddru quanti pizzira havi”? Dui rispose la vecchia con fare sicuro. Brava disse lo zio Totò. E due ne possono salire davanti. Acchianati ch’è tardu prima ca u tempu si infusca”!
La zia Filicia invece, si portava sempre le banconote per paura dei ladri e le nascondeva nel reggipetto per non farsi fregare da nessuno, perché era una fimmina “arcera” e all’antica, così per pagare il biglietto ogni volta doveva fare diverse manovre. E quando l’autista le chiedeva i soldi sapendo che doveva aspettare si divertiva a schernirla: “Ma unni si sarva sti sordi mezzu i minni? Cca latri n’un ci nn’è, quantu voti ci l’haiu a diri, cca si qualcunu arrobba ci tagliamu i manu, i latri usannu unn’hannu iri a rubari”. E a Favara latri n’un ci nn’è, su tutti galantuomini e vannu prima a missa e poi o circulu civili…
Franco Cilona racconta:
-“A mio padre la prima 1100 di colore blu arrivò nel 1957 in una giornata indimenticabile. Favara era tutta ricoperta di neve. Una vera poesia per gli occhi dei vecchi e dei bambini. Un fatto eccezionale dalle nostre parti! Un giorno finalmente arrivò il modello 1400 e l’auto l’abbiamo portata ad Asti per allungarla. Il rifornimento di benzina era in piazza Madrice. A quei tempi l’assicurazione non era obbligatoria e quando accadeva un incidente erano dolori amari per tutti e non ci poteva nemmeno l’avvocato di Don Lollò quello della giara di Pirandello, per intenderci. Le macchine che si affittavano si pagavano a chilometro. Io stesso ho accompagnato molti macellai a Caltanissetta. Alcuni favaresi facevano il tirocinio con le macchine di mio padre e siccome l’assicurazione allora non era obbligatoria succedevano sempre discussioni infuocate. Un assicuratore molto fantasioso del tempo pubblicizzava la sua assicurazione dicendo ai clienti che la sua era un’assicurazione speciale ed aveva le corna: si trattava della Toro. Ma quando l’incidente avvenne a Reggio Calabria apriti cielo, le discussioni furono veramente tante e inenarrabili, alla favarese con parlate in cantunera di più persone che si misero di mezzo per evitare che la cosa finisse a “fetu”. Ecco un breve dialogo:- “Ma cu tu dissi a tia di iritinni a Reggio Calabria, chi ci isti a fari chiese l’assicuratore, n’un putiatu ristari a Messina”! La Calabria per l’assicurazione regionale era un altro stato, uno stato sovrano. Nelle macchine di piazza c’era la radio, una bella comodità per i viaggiatori che comodamente seduti potevano ascoltare come veri signori il comunicato, il gazzettino di Sicilia e tante belle canzoni antiche. E se ai maschi attempati che avevano qualche problema di prostata, scattava l’esigenza improvvisa di urinare lo zio Ciccio si fermava in una stradina vicino alle suore e faceva una breve sosta, cosa che non era prevista dagli autisti degli autobus di linea e che gli anziani apprezzavano molto…
Antonio Valenti racconta suo padre:-
Mio padre a 65 con la morte di mio fratello Lino non volle fare più l’autista di piazza e il suo posto lo prese mio zio Luigi che per i favaresi era uno spasso, tant’è che molti aspettavano proprio lui per viaggiare in allegria. Mio zio Luigi sapeva rendere il viaggio spassoso. Sopra il cruscotto teneva una specie di giocattolo molto curioso, che quando gli toccavano le gambe usciva qualcosa di trasgressivo. Le vecchiette che erano sedute davanti erano molto religiose e quando ricevevano la sorpresa, prima ridevano e poi sentendosi osservate dagli altri viaggiatori “s’attuppavano” gli occhi”, e promettevano solennemente, facendolo sentire a tutti quelli che ridevano, che presto sarebbero andate a confessarsi in chiesa. Certe volte mio zio Luigi fingeva di fare il dottore e dietro il bagagliaio visitava le persone così per scherzo. In piazza Madrice c’era il fioraio Emanuele Butticè che vendeva fiori e quando le persone cercavano qualcuno, gli autisti che erano “mangiamintusi” le indirizzavano da lui dicendo, andate dallo zio Pasquali che vende i fiori che sa tutto di tutti e lui stesso vi indicherà dove abitano quelli che cercate. Quando Emanuele si sentiva chiamare Pasquale perdeva veramente le staffe e inseguiva il malcapitato. E gli autisti e le persone della piazza ridevano tutti a crepapelle. Mio papà aveva una Fiat 1100 multipla…
Gerlando Cilona racconta suo padre Don Cicciu
“Quanto sudore gli usciva dai pori quando faceva caldo e non vi erano allora
climatizzatori da rendere piacevole l’aria: apriva il finestrino e con la mano sinistra fuori dallo sportello cercava refrigerio. E che dire delle prolungate fermate che doveva subire in viaggio perché il motore si surriscaldava ed occorreva bloccarlo per immettere acqua fresca? Né maltempo, né vento impetuoso o giornate afose gli impedivano di intraprendere lunghi viaggi con i paesani quando erano costretti, e ciò spesso accadeva, a recarsi in alcune città della Sicilia per curarsi o essere operati negli ospedali più attrezzati.
Don Cicciu (il don in Sicilia viene indirizzato a persone di rispetto e di stima) si alzava presto la mattina per prendere il posto in Piazza dei Vespri dove vi sostavano le macchine di piazza che dovevano rispettare le partenze secondo l’ordine cronologico di arrivo.
Non c’era persona che non conoscesse Francesco Cilona, “Lu chauffeur da Matrici!”.
Il lavoro se lo faceva pagare se il cliente era fatto salire dai luoghi prestabiliti ossia Piazza dei Vespri o da Porta di Ponte, mentre quelli che incontrava per caso lungo le Strade, trazzere o di campagna, lontani dal paese, non li faceva pagare.
Umanità, disponibilità e buone maniere furono le matrici a cui si attenne sempre. Le persone alle quali veniva incontro per il prezzo del trasporto erano i poveri, la gente umile, gli zolfatari, i contadini che erano costretti a percorrere molti chilometri prima di giungere al posto di lavoro. Del lavoro e nel lavoro non si lamentava mai e quando arrivava a casa non faceva trapelare la fatica. I figli numerosi, ben 11, da mantenere erano la sua delizia e il suo cruccio, mantenerli costava troppo e i tempi erano difficili.
Decise allora di intraprendere una nuova attività, la prima in assoluto a Favara e forse in provincia: mettere su il noleggio di auto. Poco alla volta passò dalla giardinetta alla belvedere, poi al 1100. E, in seguito, acquistò due seicento e una multipla: il parco macchine costituì una ventata di novità in un paese dove il mezzo di trasporto più comune era il cavallo, il carretto o l’asino. Per i tempi apparve un servizio straordinario che permetteva a chi non possedeva un mezzo di trasporto di averlo, anche se a pagamento, consentendo di muoversi, di raggiungere luoghi lontani sia per motivi di lavoro che di divertimento.
Centinaia e centinaia di persone guidarono il loro primo veicolo con le macchine di don Cicciu. L’economia del paese subiva miglioramenti.
Il paese si apriva alle novità del tempo, ma non era tutta rosea l’attività per Francesco Cilona.
I rischi economici erano dietro il cosiddetto angolo; scaturivano dai guasti che le autovetture subivano da parte di chi aveva noleggiato e causato il danno e non si poteva permettere il denaro per le riparazioni. E don Cicciu, aspettando inutilmente le somme dovute, si metteva a riparare, per quello che sapeva e per quanto poteva, i danni subiti. Smontava e rimontava parti del motore, i semiassi o le panne di gomme spesso sotto la luce fioca della lampada comunale attaccata alla parete della chiesa Madre. Il suo banco di lavoro fu la catasta di legnami che un rivenditore, Paolo Sajeva, lasciava nella strada…