Giuseppe Maurizio Piscopo
Incontrare Pino Bullara per parlare di poesia è una di quelle cose che fa bene al cuore. E’ un modo per ricordare a tutti che la poesia non è morta, che i poeti ci sono ancora e continuano a raccontare il mondo seguendo i loro sogni, cantando la luna, le stelle e i rintocchi dell’orologio del castello.
“Cinque rintocchi batteva, da lontano,
l’orologio del Castello chiaramontano,
a poche miglia dalla Valle agrigentina,
fra l’odore di zolfo e la brezza marina;
cinque rintocchi su quel far della sera,
secondo dì alle prime idi di primavera,
l’anno che entrò la nostra Costituzione:
nel mondo feci io la mia apparizione.
Quarto fra cinque figli, secondo di tre,
modesta famiglia, amato come un re.
Nella città dell’elefante di Eliodoro,
in lingue straniere cinsi il capo d’alloro.
Prima in Brianza, poi nell’Agrigentino,
insegnavo con gioia ad ogni ragazzino:
“ludendo discitur”, studio e serenità,
amore, tolleranza, pari opportunità.
“Dono di Dio” la donna del cuore,
fedele compagna in gioia e dolore;
come coronamento, due figli speciali.
Poi cari amici e affettuosi animali.
Finita la mia carriera d’insegnamento,
continuo, ancora, ad insegnar “Nel vento”,
col sorriso di sempre, un po’ di fantasia,
con amore, con gioia… con la mia poesia.”
Ecco, in breve, la mia vita raccontata in versi.
Giuseppe Bullara, detto Pino, nasce il 15 aprile 1948 a Favara (Agrigento). Laureatosi in lingue al Magistero di Catania, approda all’insegnamento prima in Brianza poi nell’Agrigentino.
Nel 2006 pubblica il suo primo libro: “Nel vento”, liriche contro la guerra e le ingiustizie sociali. L’anno dopo presenta “Immiruti‘” (Gobbi), una raccolta di poesie in siciliano, con a fronte testo in italiano, corredata da pagine di filologia siciliana e da un utile glossario. Segue “Vaneddri e curtiglia” (viuzze e cortili), versi in siciliano che richiamano le tradizioni dell’Isola.
Il 2016 è la volta di “Poematicando”, filastrocche grammaticali e simpatiche poesiole varie: valido e piacevole strumento didattico, utile per agevolare gli alunni nell’apprendimento. Oltre alle tante liriche presenti nel suo sito, www.nelvento.eu, l’autore ha già pronta una raccolta di poesie mitologiche; l’appendice contiene un ampio glossario e tavole sinottiche esplicative.
(Da “Enciclopedia dei poeti contemporanei italiani.” p.61 Aletti Editore. Roma 2018).
Quando nasce in te l’amore per la poesia?
Mi è sempre piaciuto leggere, scrivere e soprattutto comporre versi. Da bambino mi divertivo a continuare le poesie di altri autori con versi miei, immaginando un finale diverso. Diceva De Andre’, citando Croce: “Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; poi restano solo due tipi di poeti: quelli veri e gli sciocchi; io sono solo un cantautore.” Anch’io, non reputandomi un vero poeta, né tanto meno uno sciocco, dopo l’età adolescenziale ho smesso di scrivere; ma la passione è rimasta dentro, come il fuoco sotto la cenere. Poi un mattino, alla soglia dei cinquant’anni, il vento della poesia è tornato di nuovo a soffiare su quella cenere, spazzandola via: così quel fuoco ha ripreso ad ardere. Quando nel ‘99 ho dovuto assistere ad una guerra, mascherata da missione di pace, il ragazzo del ’68, che è stato sempre in me, si è ribellato. I pensieri dell’orrore della guerra fluttuavano nella mia testa e caparbiamente volevano uscire in versi: nacque così “Figli del ’68”; ripensando, poi, all’assurda situazione palestinese, nel 2004, fu la volta di “Nel vento”; le altre hanno attraversato una via ormai esplorata.
Che cos’è la poesia siciliana?
Innanzitutto, credo che la poesia, in generale, sia la capacità di saper esprimere i propri sentimenti e riuscire a comunicarli agli altri; ovviamente ognuno scrive secondo le proprie capacità umane e culturali. Dato che il siciliano è per me, come direbbe Buttitta, la “lingua addutata di patri”, esprimermi in siciliano, nella mia parlata favarese, è un fatto del tutto naturale.
Nello specifico, la poesia siciliana ha una lunga e rinomata tradizione che trae le sue origini nella “scuola poetica siciliana”, nata alla corte di Guglielmo II d’Altavilla (1166) e che trova il suo massimo splendore col grande imperatore Federico II.
In questo contesto, nasce la poesia lirica siciliana, che si ispira ai trovatori provenzali e da questi trae il tema dell’amor cortese. Con la morte di Manfredi (1266) tale progetto culturale s’interrompe e l’eredità viene raccolta dai poeti toscani. Nel XIV secolo con la dinastia degli Angioini, sostanzialmente, la lirica siciliana subisce un periodo di stasi, per riprendersi nel quattrocento, sotto l’influenza del “canzoniere” di Petrarca e raggiungere, poi, un periodo aulico dal settecento al novecento. Una grande impronta è data dalle opere di Giuseppe Pitrè, grazie al recupero delle tradizioni popolari e di Ignazio Buttitta, che in versi rigorosamente siciliani, denuncia tematiche politico-sociali.
Sulle orme di questi scrittori, prosegue la poesia siciliana contemporanea, nell’intento di mantenere vivo l’amore per la nostra terra, di conservarne le tradizioni.
Nelle mie raccolte di poesie siciliane, “Immiruti” e “Vaneddri e curtiglia”, ho voluto proprio che ritornassero a vivere scene di vita siciliana, personaggi locali caratteristici, detti e proverbi, fonti di saggezza, con i loro colori e sapori, nell’intento di mantenerne la memoria e tramandarla alle nuove generazioni, affinché possano trarre insegnamento dalle nostre radici e farle rinvigorire.
Inoltre, al fine di diffondere la sicilianità oltre l’Isola, ho ricreato in italiano le stesse liriche, aggiungendo in appendice pagine di filologia siciliana e un utile glossario.
Qual è il momento del giorno in cui ti piace scrivere?
In una mia poesia dico:
“L’ispirazione è come un soffio di vento:
ti coglie in un istante, in un momento.
Un sottile pensiero… e la tua mente
comincia a frullare immediatamente.”
Non c’è per me un momento ben preciso per scrivere; la mia produzione letteraria, trattandosi di poesie, ha bisogno necessariamente dell’ispirazione; talvolta capita, magari dopo qualche fatto particolare, di passare la notte a comporre e ricomporre versi, per poi svegliarmi al mattino con una nuova poesia.
Qual è il giorno più bello della settimana?
Per il Leopardi, come sappiamo, è il Sabato. Anche in uno strambotto siciliano si dice “’U Sabbatu si chiama allegra-cori”; per me, a dire il vero, tutti i giorni possono essere belli o brutti: dipende da quello che ti succede e da come reagisci.
Chi sono gli autori siciliani che preferisci, c’è qualcuno in particolare?
La Sicilia è una terra ricca di cultura che ha dato i natali a tanti letterati: Da Meli a Camilleri, passando per Tempio, Capuana, Pitrè, Pirandello, Buttitta.
Ogni autore ha la sua peculiarità: dall’umile margherita alla splendida rosa, i fiori sono tutti belli. Io amo la mia terra e la ricchezza espressiva della nostra lingua. A me piacciono non solo gli autori più noti, ma apprezzo anche le poesie dei tanti nostri poeti contemporanei meno conosciuti.
Cosa pensi di Andrea Camilleri, ti piace la sua scrittura?
Da subito ho apprezzato lo stile e la creatività di Camilleri. A parte la sua genialità, forse perché siamo conterranei, trovo molte affinità culturali e di linguaggio, soprattutto nei miei versi in vernacolo; anch’io come lui, faccio uso di detti e proverbi, tipici della nostra terra.
Bisogna riconoscere a Camilleri il merito di aver creato un linguaggio nuovo, intercalando, su un sostrato italiano, espressioni tipiche del linguaggio siciliano, dando luce a uno stile ibrido, dove traghettare la sicilianità.
E dell’Abate Meli cosa pensi?
Giovanni Meli, detto l’abate, siciliano colto del settecento, era medico, chimico e letterato. Aderì al movimento dell’Arcadia e simpatizzava per le idee illuministe. Compositore di fiabe e romanzi, ancora oggi è ricordato per le sue favole.
Fin da ragazzino ho cominciato ad apprezzare le poesie del Meli; ricordo ancora la storiella di “Un surciteddu di testa sbintata” ca “avia pigghiatu la via di l’acitu”.
Da allora mi sono appassionato alle favole moralistiche in versi, scoprendo tanti altri favolisti: da Esopo a Fedro, da La Fontaine a Trilussa, autori che mi hanno ispirato per la realizzazione delle mie favole.
Ti piace la poesia di Jacques Prévert?
Confesso che, ai primi anni della mia vita universitaria, vedendo il nome di Prévert nei libri di letteratura francese, mi chiedevo come faceva quell’autore “sgrammaticato” ad occupare un posto tra i poeti; leggevo e rileggevo i suoi versi… poi ho capito che dietro quella mancanza di virgole e punti, c’era un nuovo ed esaltante stile. Prévert usa la penna come una telecamera: avvicina oggetti e persone, apparentemente banali, uno dopo l’altro, come fa, appunto, la telecamera che zooma, per far emergere la scena, come in un film.
In “Déjeuner du matin”, per esempio, noi assistiamo alla presentazione di oggetti e fatti usuali:
“Il a mis le café
dans la tasse
il a mis le lait
dans la tasse de café
il a mis le sucre
dans le café au lait
(…)
et il est parti
sous la pluie
sans une parole
sans me regarder.
Et moi, j’ai pris
ma tête dans mes mains
et j’ai pleuré” .
Il poeta non dice: «È successo questo e quell’altro», ma attraverso l’apparente futile presentazione sequenziale di oggetti comuni, mette il lettore in grado di capire la contestualità della scena; in questo caso: l’incomunicabilità.
Quanta Favara c’è nelle tue poesie?
Nelle poesie scritte in siciliano moltissimo. Il ricordo della Favara della mia infanzia ha ispirato le mie opere, dove oltre a parlare degli usi e costumi di un tempo, faccio rivivere i nostri personaggi popolari caratteristici del dopoguerra, facendoli esprimere in prima persona. Personaggi che rivivono ancora nella memoria di chi li ha conosciuti; e per chi non li ha conosciuti, diventano testimoni di scene di vita già trascorsa e di costumi ormai tramontati.
“cristiani sempri vivi ni la me menti…
vivi fin’ a quannu si li ricorda ‘a genti.”
Da che cosa traggono ispirazione le tue composizioni?
La Professoressa Gabriella Bassi così ha scritto nella presentazione alla mia raccolta ”Nel vento”: «La storia, con le sue contraddizioni, fa da sfondo alle poesie di Giuseppe Bullara. Eventi storici di portata mondiale, così come fatti di cronaca offrono lo spunto per riflessioni sulla società umana e i suoi valori, per cercare una risposta ai nostri interrogativi, per affermare e ribadire verità assolute ed universali, continuamente offuscate dal dipanarsi della storia che, nel suo evolversi, spesso schiaccia e confonde le verità più semplici, semplici perché vere.»
In effetti, semplici eventi di vita quotidiana, fatti storici o di cronaca, situazioni particolari o ricordi che riaffiorano nella mia mente sono per me spunti di riflessione da cui far scaturire i miei versi.
Che cosa trovi nei personaggi siciliani e soprattutto in quelli favaresi così da raccontarli nelle tue storie?
I personaggi delle mie narrazioni: Nené, Pauliddru, Peppi Burduni, Stefanu Cuppularu… non erano grandi uomini, ma gente comune, eroi inconsapevoli della quotidianità. Stefano, a un’analisi superficiale e preconcetta, apparirà semplicemente un “clochard”, ma dietro quella vita fatta di stenti e di miseria c’è il bene più grande dell’uomo: la libertà.
Cantava Fabrizio De Andre’: “Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fior.” Spesso i migliori esempi di umanità non arrivano da chi occupa “posti in prima fila”, ma proprio da quelli che stanno negli ultimi gradini della società.
Qual è la funzione della poesia nel mondo di oggi?
Il poeta Marini asseriva: “È del poeta il fin la meraviglia/ chi non sa far stupir vada alla briglia.”
La poetessa Rosalba Anzalone, parlando dei poeti, dice: “Affacciati sull’oceano/ dalla cima d’un iceberg/ si scaldano/ per sciogliere/ enigmi/ gravidi/ d’avventure.”
Il mondo in cui viviamo oggi ha subito cambiamenti radicali e repentini, obbligandoci a vivere in una società dominata da comunicazioni di massa, standard virtuali, ritmi veloci e impregnati da freddo materialismo, che poco si conciliano con la vocazione poetica, volta alle riflessioni esistenziali, alla meditazione, ai ricordi e alla celebrazione dei sentimenti umani.
Ci si chiede, pertanto, se la poesia riuscirà a sopravvivere a questo mondo. Io ritengo che i poeti dovranno accettare la sfida e riproporre la forza comunicativa della poesia, fatta di versi rimati, tali da allettare il lettore, e impregnati da tematiche tali da stuzzicarne la curiosità. Vorrei concludere con le parole di Montale, che si era posto questo problema: «Non c’è morte possibile per la poesia (…) la grande lirica può morire, rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette d’anima umana.»
Quali sono i segreti della lingua siciliana?
In appendice al mio libro “Immiruti”, presento le principali caratteristiche linguistiche del siciliano, soprattutto quelle derivanti dalle trasformazioni dal latino. Cercherò brevemente di indicarne alcune. Consonantismo: “nd>nn”
( es. mundus>munnu); “mb>mm” ( es. Plumbus> chiummu); “pl e cl>chi” ( es. pluere>chioviri, clavis>chiavi); “ll>dd” ( es. castellum>casteddu). Tralascio il resto, per soffermarmi su altre caratteristiche più generali.
Il siciliano non può essere considerato semplicemente una lingua neolatina, giacché il latino, qui, va ad inserirsi in un sostrato greco preesistente, per non trascurare quello elimo-siculo-sicano più arcaico. Nel medioevo, poi, dopo lo sfaldamento dell’impero romano, abbiamo avuto Arabi e Normanni e successivamente Angioini e Spagnoli, che hanno lasciato numerose caratteristiche linguistiche ancora oggi presenti nell’Isola; lo stesso nome “Favara” deriva dall’arabo “fawwāra” ( ﻓﻮﺍﺭة) che vuol dir “sorgente”. Nel suo insieme, dunque, il siciliano è un crogiolo di lingue che si sono fuse nel tempo.
Il Siciliano, inoltre, in quanto lingua, presenta diverse parlate locali, che variano da zona a zona; senza che per questo ci sia o ci debba essere necessariamente una parlata da considerare lo standard o il modello unico da seguire. Da Trapani a Messina, da Palermo a Catania, passando per tutta l’isola, pur nelle sue varianti, tutti parliamo e capiamo la stessa lingua: il Siciliano.
Molte parole antiche si stanno perdendo e con le parole scompare anche la memoria della nostra gente.
La lingua, essendo lo strumento con cui gli esseri umani comunicano tra di loro, è chiaro che subisca cambiamenti costanti in base al mutare delle condizioni sociali e politiche del tempo. Anche in lingua italiana, possiamo notare questo fenomeno, l’italiano di Dante o di Manzoni non è più quello dei nostri giorni: molti vocaboli ed espressioni sono caduti in disuso. Il siciliano, inoltre, non essendo una lingua nazionale, salvaguardata dalle istituzioni e da una specifica accademia, subisce questo fenomeno in maniera più accentuata. Tuttavia, dato che il radicamento alle nostre tradizioni da noi è molto forte, almeno la struttura sintattica e grammaticale rimane molto viva; è chiaro che vocaboli arcaici, legati soprattutto alla vita contadina d’un tempo, sono scomparsi o tendono a farlo, ma l’uso quotidiano del siciliano tra familiari e amici permetterà di mantenere viva la lingua e con essa le tradizioni, altrimenti con la fine della lingua sparirà anche la nostra identità, come afferma Ignazio Buttitta in una sua poesia:
“Un populu,
diventa poviru e servu,
quannu ci arrobbanu a lingua.”
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Camilleri faceva notare che nasciamo tutti con un biglietto a scadenza; prima o poi arriveremo alla fine del viaggio, quindi inutile fare piagnistei, bisogna rassegnarsi. Io gran parte del mio viaggio l’ho già fatto, ora mi piacerebbe continuarlo quanto più serenamente possibile.
Secondo un’antica leggenda, il portale del Paradiso si trova ai piedi dell’Arcobaleno, ed è proprio lì che vanno a finire gli animali affettuosi.
“I miei cani stanno lì, ai piedi dell’arcobaleno.
Quando verrà la mia ora, me ne partirò sereno.
Loro mi correranno incontro in modo gioviale,
poi, tutti quanti insieme varcheremo il portale.”