Giuseppe Maurizio Piscopo
L’arte del cinematografo è un tema veramente affascinate, ricco di spunti e di riflessioni storiche che ho il piacere di affrontare con Giuseppe Cavaleri un giovane professore favarese che si è trasferito da anni in Francia che ama e conosce questa materia come pochi. Se la vita è un sogno come diceva Calderon De La Barca il Cinematografo è la realizzazione di questo sogno, che non ha mai smesso di incantare milioni di appassionati in tutto il mondo.
Giuseppe Cavaleri è nato ad Agrigento ed è cresciuto a Favara, dove ha abitato fino all’età di 16 anni. A Favara ha studiato alla scuola elementare San Domenico Savio, per poi frequentare la scuola media A. Mendola e il liceo Martin Luther King. Trasferitosi in Francia con la famiglia, ha ottenuto la maturità scientifica al liceo Jean Moulin di Forbach ed ha deciso di iscriversi all’Università di Strasburgo dove ha ottenuto una laurea triennale in Lettere, Lingue e civilizzazioni straniere e una laurea magistrale in Lettere, Lingue straniere e Scambi interculturali. Per finire, ha ottenuto una laurea dottorale all’università Paris Nanterre, in cotutela con l’Universita IULM di Milano, grazie ad una tesi che analizza gli scambi culturali tra Francia ed Italia attraverso il cinema.
Tra le sue passioni oltre al cinema ci sono i viaggi, la lettura e la scrittura.
Quando nasce la passione per il cinema?
La mia passione per il cinema nasce durante la tenera età. In effetti, ogni settimana, mio padre mi portava nelle videoteche favaresi lasciandomi scegliere i film che avrei voluto vedere. Ammetto che non ero attratto dai cartoni animati, ma mi interessavo ai film di registi come Steven Spielberg, Robert Zemeckis e Tim Burton. A casa, durante i fine settimana, preferivo guardare in famiglia i film in bianco e nero. Ricordo ancora tutti i grandi classici trasmessi dalla Rai; in quel periodo scoprii le opere di Monicelli, di Risi, di Comencini ma anche i personaggi creati da Totò. Questi film nutrivano una passione che si sublimava al cinema Astor di Agrigento o nelle sale Chaplin e Marylin del cinema Mezzano di Porto Empedocle dove i miei mi portavano di tanto in tanto. Durante queste uscite scoprivo dei film nuovi di cui avevo sentito parlare nei mensili di cinema che leggevo.
Come mai hai scelto Parigi per la tua esperienza?
In realtà dovrei dire che è Parigi che ha scelto me! Mi spiego: durante il secondo anno di laurea magistrale, effettuai uno stage al Festival del cinema italiano di Villerupt, un Festival che da oltre quarant’anni, propone agli spettatori francesi, una sessantina di film italiani all’anno, tra cui ritroviamo dei film premiati a Venezia e a Cannes, ma anche delle anteprime e dei film patrimoniali. Durante quelle settimane, ebbi la possibilità di collaborare e discutere con vari esperti di cinema italiano. Uno di loro, insegnava lettere, teatro e cinema all’Università di Paris Nanterre. Quando ottenni la mia laurea magistrale, lo contattai proponendogli di seguire il mio progetto di ricerca dottorale, progetto che lo interessò. Dopo essere passato in commissione, scoprii che facevo parte di una manciata di studenti che avevano attirato l’interesse dell’equipe di ricerca. Ecco perché, una volta convalidata la mia iscrizione, mi trasferii a Parigi per tre anni, in modo da poter consultare i fondi cinematografici e bibliografici proposti dalla capitale francese.
Cosa pensi del film Il Cammino della speranza?
Si tratta di una delle opere post-neorealiste che preferisco. Dal punto vista formale, sfrutta l’estetica neorealista sublimata dalle opere di Rossellini o dal primo Visconti, e dal punto di vista dei contenuti tratta di una tematica quasi tabù durante quegli anni: l’emigrazione italiana. Si tratta di un film importante, un’opera che testimonia un passato di cui secondo me i nostri libri di storia parlano troppo poco. E poi non dimentichiamo che le prime sequenze del film sono state girate a Favara, con attori non professionisti del luogo. Se si rivede il film, si riconosce ancora la cappella del calvario e una parte del centro storico che i decenni di lottizzazione della seconda metà del novecento non hanno ancora fatto sparire completamente.
Cosa pensi del cinema italiano contemporaneo?
Il cinema italiano contemporaneo può essere comparato a un iceberg di cui si intravede solo una minima parte. In effetti, l’industria cinematografica italiana produce, fin dall’inizio degli anni duemila, più di duecento film all’anno. Si tratta di opere che sfruttano i codici filmici legati a tutti i generi: il Bel paese, in effetti, continua a produrre dei film drammatici, dei polizieschi, dei western, dei road-movies, dei film d’azione, dei film animati, e molto spesso inventa e reinventa dei generi che arricchiscono il panorama cinematografico europeo. Di questi duecento film, però, solo una decina usufruiscono di una distribuzione capace di renderli visibili. Spesso, tra questi eletti, si ritrovano dei prodotti usa e getta che incassano molto durante il periodo natalizio anche se devo dire che negli ultimi dieci anni si dà più spazio a delle commedie brillanti e a dei film di grandi autori degni di nota.
Il cinema italiano contemporaneo è il titolo di un tuo libro pubblicato dall’editions L’Harmattan 2020…
In effetti, il mio libro, pubblicato lo scorso aprile, si interessa di autori cinematografici che negli ultimi anni hanno saputo coniugare intrattenimento e contenuti di spessore. Se penso ai film di Garrone, Sorrentino e Crialese posso confermare che le loro opere accontentano pubblico e critica. I loro film posseggono un virtuosismo formale che eguaglia e spesso supera quello dei colleghi statunitensi ed europei. Le loro produzioni, create in modo artigianale, ci ricordano che le maestranze che avevano reso il cinema italiano degli sessanta così amato in giro per il mondo, si sono rinnovate e sono ancora capaci di creare dei prodotti di grandissima qualità.
Che cosa cerca il pubblico nel cinematografo?
In realtà, oggi, non possiamo più parlare di pubblico ma dobbiamo piuttosto parlare di pubblici. Se durante il ventesimo secolo si poteva pensare agli spettatori come un’entità unica, dopo l’arrivo della televisione e dopo la moltiplicazione degli schermi casalinghi dovuta alla rivoluzione informatica di questi ultimi decenni, abbiamo a che fare con un paesaggio mediatico estremamente eterogeneo. Siamo di fronte ad alcuni gruppi che preferiscono ancora frequentare le sale cinematografiche, spesso per due motivi: per vedere dei “film evento” come quelli legati alla saga di Guerre Stellari, film prodotti per sfruttare pienamente le tecnologie audiovisive delle sale di nuova generazione; ma anche per vedere dei film indipendenti, adatti ad un pubblico di nicchia, che escono in piccole sale cittadine e che attirano degli spettatori che desiderano usufruire di opere che non saranno mai trasmesse in televisione. Poi ci sono tutti quegli spettatori che continuano a guardare dei film trasmessi in televisione, mentre le nuove generazioni, oramai, usufruiscono sempre più spesso dell’offerta filmica proposta da piattaforme VOD legali o pirata. Siamo quindi di fronte a un panorama spettatori estremamente multiforme, capace di interessarsi parallelamente ad opere a volte molto distanti tra loro per forma e contenuti e visti su schermi di vario genere.
Cosa insegni esattamente ai ragazzi di Parigi?
Dopo la tesi, Parigi è diventata il mio punto di riferimento per quanto riguarda le mie ricerche universitarie. È a Parigi che si trova il laboratorio di ricerca a cui sono legato, ma in realtà le mie ricerche mi portano a effettuare delle conferenze in giro per l’Europa. L’ultima, in ordine cronologico, è stata co-organizzata dall’Università Panteion di Atene. Durante questi interventi, espongo i miei studi legati ai contenuti sociologici espressi dal cinema europeo e mi occupo di dimostrare empiricamente che i media audiovisivi possono essere un ottimo supporto pedagogico, soprattutto quando si tratta di trasmettere degli insegnamenti complessi ad alunni in difficoltà.
Perché è famosa nel mondo l’Accademia di Montpellier?
Ciò che rende l’Accademia di Montpellier così rinomata è, prima di tutto, la sua facoltà di medicina: fondata nel XII° secolo, è la più antica facoltà di studi medici ancora in attività al mondo. Per quanto riguarda gli studi in letteratura, i ricercatori dell’accademia collaborano col Centro di creazione poetica Jean Joubert. Dal punto di vista storico, da qui sono passati Rabelais, il giovane Molière e in questa regione è nato Paul Valery, uno dei più grandi poeti francesi del XX° secolo. Ed è in questa accademia che ho ottenuto la mia cattedra da titolare ed è nella zona di Montpellier che per ora insegno letteratura francese e cinema.
Hai ricevuto il primo premio di scrittura “Giornata del lettore” organizzato dal Ministero degli affari esteri e dall’accademia della Crusca . Di che si tratta?
Nel 2010 mi trovavo a Strasburgo. In quel periodo, all’Università, il dipartimento di lettere trasmise agli studenti italofoni un bando del Ministero degli affari esteri. Si trattava di un concorso letterario sostenuto dall’Accademia della Crusca che proponeva ai partecipanti di creare una novella che seguisse una traccia data dalla giuria. Decisi allora di partecipare, semplicemente per il piacere di farlo. Il premio – una collana di libri – era secondario, avevo solo voglia di sviluppare la traccia che avevo letto. Dopo qualche mese, senza che me lo aspettassi, mi arrivò una lettera dal consolato della regione Grand Est, che mi annunciava di aver ottenuto il primo premio europeo. In effetti, il concorso era stato esteso ai paesi dell’Unione. Quest’evento, mi permise d’incontrare l’ambasciatore di Strasburgo e la direttrice dell’Istituto italiano di cultura della città, che mi consegnarono il premio, e con cui, dopo pochi mesi, cominciai a collaborare come interprete e traduttore.
Come si trova un professore di Favara nella Ville Lumierè?
I miei anni parigini sono stati molto intensi. Sa, a volte, durante le lunghe ore passate alla Biblioteca Nazionale François Mitterand, ripensavo ai primi libri consultati nell’unica biblioteca di Favara, e mi rendevo conto di come e quanto le cose per me fossero cambiate. Di Favara porto nel cuore un’infanzia felice, sostenuta da genitori e un fratello fantastici, da amici fraterni con cui sono sempre in contatto e da persone che mi hanno insegnato tanto. Debbo la mia curiosità letteraria a insegnanti come il maestro Giovanni Marchica e il professore Giuseppe Alonge, e non dimentico che Favara, anche se socio-economicamente martoriata, è la città dove affondano le mie radici paterne e materne da moltissime generazioni. Bisogna ammettere però che la capitale francese è stata e rimane une metropoli dove la Cultura è onnipresente. Un giovane insegnante come me usufruisce pienamente di un’offerta culturale immensa: spesso si pensa solo ai musei, uno dei simboli della città, ma non bisogna dimenticare le arti performative, come l’offerta teatrale (patrimoniale e contemporanea), gli eventi musicali (colti, popolari o d’avanguardia), o ancora tutte le sale cinematografiche che mi hanno permesso di vedere delle opere provenienti da tutti i continenti. Parigi rimane un crocevia culturale che ho la fortuna di continuare ad attraversare e che mi arricchisce professionalmente, artisticamente e umanamente.
Cosa ti manca della Sicilia?
Della Sicilia mi mancano prima di tutto i visi cari che porto nel cuore. Dei luoghi dell’infanzia non dimentico i profumi: come non ricordare il mandorlo in primavera e i fiori d’arancio. E poi, durante le giornate di pioggia francesi mi piace pensare alle lunghe passeggiate in compagnia di amici d’infanzia sotto un cielo spesso blu e soleggiato.
Qual è l’ultimo libro che hai letto e l’ultimo film che hai visto?
L’ultimo libro che ho letto è “L’homme foudroyé” di Blaise Cendrars, un autore francese che decise di diventare tale dopo essere sopravvissuto alla prima guerra mondiale. Quest’opera narra una parte delle sue avventure come scrittore e sceneggiatore cinematografico. L’ultimo film che ho visto s’intitola: Vogliamo vivere ! (To Be not Not to Be), una commedia brillante a sfondo politico del 1942 di Ernst Lubitsch.
Hai studiato il cinema muto. Perché è così importante questo aspetto della settima arte?
Il cinema muto è, e rimane, una fonte d’ispirazione immensa per gli studiosi e gli appassionati di cinema. I pochi film di cui siamo ancora in possesso ci mostrano che il cinema come lo conosciamo oggi è il risultato di esperimenti narrativi, visivi e formali già perfettamente padroneggiati cento anni fa. I film di Georges Mélièsdel XIX° secolo sfruttano già gli effetti speciali ; quelli dei fratelli Lumière utilizzano già dei sistemi in tre dimensioni e ci permettono di filmare a colori; le opere di Dziga Vertov non hanno nulla da invidiare a quelle ultramoderne di Terrence Malick. Questo cinema, a volte dimenticato, ci fornisce tutti i codici e tutti i trucchi sfruttati dai nostri media attuali e ci permette di capire com’è nata la grammatica visiva che nutre i prodotti audiovisivi che oggi utilizziamo quotidianamente.
E’ ancora attuale il cinema di Charlie Chaplin?
Chaplin è attualissimo. Attraverso le sue opere burlesche, non solo attualizza i codici satirici provenienti dal Regno Unito, ma li sfrutta per denunciare le derive socio-economiche del suo tempo. Grazie alla maschera di Charlot riesce a trasmettere dei messaggi talmente universali che rimangono attuali ancora oggi. I suoi personaggi sono ai margini di una società dove il dio denaro la fa da padrone. Le piaghe del nostro tempo – egocentrismo, materialismo, avidità – sono già presenti nei suoi film che, strappandoci un sorriso, ci mostrano palesemente i lati peggiori del nostro caro occidente.
Cosa pensi del cinema sull’emigrazione?
Penso che il cinema, attraverso la finzione, sia capace di mostrare in modo chiaro delle realtà che i media giornalistici tacciono o deformano. I nostri telegiornali tendono a generalizzare questi eventi riducendoli a cifre statistiche, dimenticando che dietro un titolo sensazionalistico si nasconde una delle più grandi tragedie umane di questi decenni. Il cinema tenta, fin dalla metà del XX° secolo, di mostrare i percorsi individuali di esseri che sono spinti ad abbandonare la propria terra nella speranza di un futuro migliore, o a volte di un futuro punto e basta. Il cinema, ma anche la fotografia e la pittura, sono capaci di attirare la nostra attenzione su eventi che spesso ignoriamo distrattamente.
Giorgio Bassani e il cinema italiano…
Bassani è celebrato, a giusto titolo, per la sua opera letteraria che ha tenuto viva la memoria della comunità ebrea italiana, martoriata durante il periodo fascista. Spesso si dimentica però che per bisogno e per diletto, l’autore ferrarese si è consacrato per qualche anno alla scrittura cinematografica collaborando con registi come Mario Soldati e Michelangelo Antonioni. Le sue opere letterarie, in seguito, hanno ispirato degli autori come Vittorio De Sica, che con un’opera come i Giardini dei Finzi Contini vinse l’Oscar per il miglior film in lingua straniera nel 1971.
Il cinema italiano ha influenzato il cinema francese?
Assolutamente: le opere neorealiste hanno nutrito e fortemente influenzato gli autori della Nouvelle Vague. Godard e Truffaut, per esempio, si ispirano alle opere di Rossellini, Visconti o ancora a quelle di De Santis per rivoluzionare il cinema transalpino, che prima del loro arrivo, produceva molti prodotti standardizzati di scarso interesse.
Fellini amava molto Parigi e Parigi ha amato Fellini e i grandi registi italiani.
In Francia, la figura di Fellini ha ormai assunto delle dimensioni mitiche. Ogni cinefilo francese che si rispetti conosce Fellini e ha visto una buona parte delle sue opere. Una parte dei critici francesi ha inserito l’autore romagnolo nel Pantheon dei registi più importanti della storia del cinema e utilizza le sue opere come metro di misura per giudicare i cineasti italiani contemporanei. I registi italiani degli anni sessanta e settanta godono di grande stima, mentre quelli più recenti, devono spesso confrontarsi a un’eredità importante ma troppo imponente. Per questo credo che bisogni lasciare ai francesi il piacere di celebrare i nostri autori simbolo, ma che bisogni anche guidarli verso una storicizzazione necessaria che permetterà loro di inserirli in un contesto più patrimoniale. Facendo ciò, saranno capaci di guardare con sguardo obbiettivo le qualità di alcuni nostri registi contemporanei : penso a Luca Guadagnino, ad Alice Rohrwacher o a Fabio Mollo.
Esce ancora la rivista Pariscope?
Purtroppo no. La rivoluzione telematica di questi ultimi anni ha messo in ginocchio tante riviste cartacee come Pariscope, di cui l’ultima stampa risale al 2016. Oramai, i lettori preferiscono utilizzare i supporti informatici a loro disposizione, ecco perché una rivista come Bande à Part, nata nel 2013, continua a fornire dei contenuti cinematografici e culturali di grande qualità come lo faceva Pariscope, accessibili attraverso i nostri dispositivi mobili.
Una tua definizione di cinema?
Per me, il cinema è uno strumento in grado di attraversare, senza limiti, il tempo e lo spazio. È capace di evocare immagini e suoni familiari o sorprendentemente sconosciuti. Sa raccontarci, con linguaggi universali, delle storie che i nostri sensi ignorano per distrazione o per pigrizia. È una forma d’Arte totale.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho in mente alcuni progetti letterari legati al cinema e altri legati alla narrativa. Poi, come ogni anno, sto riflettendo con un gruppo di colleghi alla concezione del programma cinematografico del Festival in cui intervengo. Tra letture, analisi filmiche e viaggi, intendo quindi continuare a nutrirmi di nuove esperienze capaci di stimolare la mia curiosità.