Penso che a Favara il poeta Giuseppe Nicotra non sia stato compreso fino in fondo, eppure ha lasciato un segno indelebile della sua opera attraverso libri, poesie e pitture.
Nicotra mi ricorda Pier Paolo Pasolini, i poeti russi. Un critico che l’ha conosciuto bene mi ha confidato che è stato definito uno dei poeti più importanti del secondo ‘900. Sono felice che Antonio Liotta a breve pubblicherà tutto il lavoro di Giuseppe Nicotra in un’Opera Omnia. Non dimenticherò mai l’articolo che Giuseppe Nicotra ha pubblicato sul Gruppo Popolare Favarese agli inizi della esperienza artistica con Antonio Zarcone . Un pezzo da incorniciare per la sua attenzione al mondo contadino raccontato con un linguaggio vero, forbito e tagliente allo stesso tempo.
Ecco il ricordo di Rino Garraffo tratta dall’introduzione dell’opera “L’uso delle parole” (Tipografia Primavera, Agrigento, 1972). Giuseppe Nicotra vive, come tutti gli intellettuali, la crisi della poesia e dell’arte in genere, nel mondo d’oggi. Ogni sentimento, ogni gesto spontaneo, ogni idea personale, ogni progetto, che non rientra «nell’ingranaggio», che non rientra nel programma già dato o al limite previsto, che non rientra nella prassi convenzionale è destinato ad essere soffocato, è destinato a lasciare il suo sapore di colpa. I versi di Nicotra esprimono la crisi esistenziale, il senso della solitudine, dell’incomunicabilità propria di chi ha «rifiutato la segnaletica vigente» di chi detesta «la norma e la cerimonia».
Se ne «I colpevoli» i riferimenti a Majakovskiy (nel suo aspetto meno declamatorio) e a Quasimodo erano evidenti, ne «L’uso delle parole» sono ridotti ad echi quasi impercettibili. In questi versi la struttura del movimento linguistico – poetico è lirica; a parte qualche eccezione di sperimentalismo formale. Una liricità che con i suoi toni alti e bassi si presenta a volte come uno sfogo – analisi e a volte come un dialogo – analisi, e che comunque rimanda sempre al centro dell’esistenza viva: l’amore. Ogni immagine poetica è una ferita aperta dinanzi agli occhi del lettore, col rischio di contaminarlo.
Ed ora leggiamo con attenzione due poesie di Giuseppe Nicotra.
SERE D’INVERNO
Sul palo di ferro battono le pietre i ragazzi, e pare che ascolto la nostra povera campana senza chiesa. Io ripeto questo lamento col paraurti, lucido ancora, di quella macchina arrugginita. Ero un ragazzo quando la bruciarono i nemici di tuo padre. Ora sembra lasciata — apposta — alla mia vista, inutile, contorta come il relitto del mio corpo rimasto nella ruggine della noia.
IL PANE
Il pane di mia madre è amaro. Ingoiarlo è un supplizio che si ripete ogni giorno, sino a stancarmi. E fatica che dura per darmi angoscia di vivere male. Sono stufo di pane. Mangiarlo mi si è fatto obbligo insopportabile. Aborro questo vizio d’ingoiare ciò che non è proprio. Il pane masticato in un angolo di silenzio, mi ricorda un rimorso che non so far tacere. (20 giugno 1966)
Per completare il ritratto di Giuseppe Nicotra mi sono avvalso della testimonianza di Alfonso Lentini, Antonio Patti e di Antonio Liotta che sono stati molto vicini al poeta favarese per aver vissuto alcune esperienze letterarie.
Testimonianza di Alfonso Lentini
Ricordare Giuseppe Nicotra significa per me ritornare agli anni della mia prima consapevolezza sui fatti dell’arte e della poesia. Alla fine degli anni sessanta ero poco più di un ragazzo e a Favara era difficile trovare riferimenti, orientarsi. Di arte e poesia sapevo solo quello che mi arrivava dalla scuola, dal liceo; ma non mi bastava. Sentivo che all’orizzonte avrebbe potuto esserci altro. Del resto gli anni sessanta erano pieni di stimoli, la contestazione era alle porte, nella musica era in corso la rivoluzione del rock.
Ricordo che nei pressi del cinema Bellini, arena estiva situata nella periferia del paese verso l’Itria, c’era un piccolo negozio di tabacchi. Un giorno, passando da quel negozio, sento una voce dall’interno che mi chiama. È Rino Garraffo, allora giovane artista che conosco già perché alcuni anni prima mi ha dato lezioni di pittura (su iniziativa di mio padre, che avrebbe voluto incentivare il mio precoce interesse di bambino verso tele e colori). Entro incuriosito in quel piccolo spazio in penombra e noto subito che sul bancone c’è una strana pila di libri giallastri. Strana, perché quello non è certo il posto dove si vendono libri. Rino, che in quel periodo lavora in quella specie di emporio, mi propone di comprare il volumetto: una pubblicazione di un poeta suo amico, mi dice. Aggiunge che di quel libro alcuni stanno parlando male a causa del linguaggio molto distante dalla poesia tradizionale e per i contenuti che potrebbero sembrare scandalosi. Sulla copertina leggo un titolo : “I colpevoli”, che – non so perché – mi inquieta e mi attrae subito. Costa cinquecento lire, lo compro.
Inizia così, dalla lettura del suo libro, il mio rapporto con Giuseppe Nicotra; che incontrerò personalmente qualche tempo dopo, quando lo stesso Rino mi inviterà a partecipare a una “misteriosa” riunione. Garraffo e Nicotra infatti stavano cercando giovani e giovanissimi con cui confrontarsi per dar vita a un gruppo culturale innovativo. La riunione si tenne a casa di Nicotra. Mi colpì subito che sul tavolo, a disposizione di tutti, ci fossero libri di poeti che non avevo mai sentito nominare: Sanguineti, Pagliarani, Balestrini, Pignotti. Si parlò di neoavanguardia, di politica. Mi si aprì un mondo.
Nasceva Ades, “gruppo di estetica sperimentale”, e da allora Peppe Nicotra, insieme a Rino, Antonio Patti, Antonio Liotta, Lillo Nicotra, Matteo Vullo ed altri, diventò per me un importante compagno di viaggio e di avventure nel mondo della sperimentazione espressiva. Peppe aveva su tutti noi un particolare ascendente che proveniva, oltre che dalla profonda cultura e dalla polivalente sensibilità creativa (fu poeta, pittore e ceramista), anche da un carattere dolce e docile, ma nello stesso tempo carismatico.
Ricordo, nelle riunioni del gruppo, le appassionate discussioni che a volte sfociavano in vivaci polemiche; ma quando era il turno di Peppe, si faceva subito silenzio e le sue parole acquistavano peso con naturalezza. Tuttavia la personalità di Peppe era inquieta, problematica. Lo ricordo col basco e col barbone, lo sguardo malinconico e un po’ perso, gli occhi piccoli, a fessura, che sembravano tendere oltre l’orizzonte. Parlava poco di sé, ma certamente molto peso ebbe nella sua vita il dramma della disoccupazione che non riuscì mai a risolvere, anche a causa della sua naturale ritrosia. Diversi, emarginati e di conseguenza “Colpevoli”, ci si può sentire pure per queste ragioni.
Testimonianza di Antonio Patti
Lunghissima la frequentazione amicale con Peppi come eravamo abituati a chiamarlo. Ed ha segnato profondamente la mia vita, il mio modo di pensare e, soprattutto di vivere. L’Arte, poesia compresa. Lui era un artista poliedrico con una profonda preparazione culturale che lo rendeva capace di navigare a vista tra le varie correnti artistiche e letterarie del Novecento. Aveva anche intuito e una grande capacità di ascolto. Aveva accolto me ed Alfonso Lentini, i più giovani del futuro gruppo Ades, ( a proposito il nome è un suo brevetto frutto dell’acronimo di Azione di Estetica Sperimentale, la prima manifestazione artistica che ci ha visti tutti quanti coinvolti) facendoci sentire subito a nostro agio. Ci siamo tuffati sui suoi libri, frutto di sacrifici immani per acquistarli, e le prime riviste d’arte. Con lui, Rino Garraffo, suo cugino Giuseppe Garrraffo, ( il meno artista tra noi), Antonio Liotta; a far parte del gruppo pure un altro Garraffo, fratello di Rino
E, ovviamente cugino dell’omonimo:per non confonderli lo chiamavamo scherzosamente il senatore. Un bel gruppo che s’infiammava per questioni, che allora ci parevano vitali quali il ruolo dell’intellettuale nella lotta di classe, nella contestazione e sul ruolo dell’artista nel movimento di rinnovamento di quegli anni così complessi, ma anche fecondi. La vita con Peppi era iniziata con I Colpevoli, una bellissima raccolta di poesie edita da Rebellato con una copertina cartonata arancione e si è chiusa con la raccolta Luminarie, che non aveva fatto in tempo a vedere stampata. Era già molto malato e aveva affidato a me i testi che erano stati battuti con la Olivetti 32, tasto dopo tasto in più copie con il foglio di carta carbone in mezzo. Parole scolpite con forza così come sono rimaste scolpite in ognuno di noi, che quelle poesie avevamo più volte letto, commentato e amato. Delegò me per il titolo quando gli ho fatto notare che mancava. Peppi aveva un suo culto per i titoli. Quando c’era da sceglierne uno, l’ultima parola era la sua e veniva accolta quasi sempre con entusiasmo. Stavolta non ce l’aveva. Si sentiva mancare le forze e asciugare la vita nelle vene. Mi guardò con ironia e abbandono, il suo modo di sorridere quando aveva un problema. Ne ho trovati decine, ma poi mi presentai con due tre titoli soltanto. Sapevo che uno era quello vincente, quello a cui per altro, credevo di più.”Peppe, Luminarie!” “Luminarie cosa”? Luminarie il titolo della tua raccolta di poesie, che Antonio vuole stampare”. Mi guardò incuriosito, ma non contrariato. “Peppe nelle tue poesie non fai che descrivere feste di paese, il buio della notte schiarito dalle tante lucine colorate degli archi a festa, le luminarie appunto”. E aggiunsi:”Anche se a quelle feste non partecipi, anche se ti senti escluso da quelle grida, dalle voci dei bambini, dall’allegria attorno, un po’ di quella luce riesce a illuminare anche te. Questo leggo nel titolo e questo leggo nelle tue poesie”.Mi guarda convinto e acconsente con il suo sorriso disarmante . Si era convinto che avevo centrato il nocciolo duro della sua ultima raccolta. Viveva gli ultimi giorni di vita correggendo i testi e le bozze, che, per tanti casi fortuiti della vita non sono stati ancora pubblicati nonostante ne abbia corretto più volte le bozze nelle varie edizioni dell’opera omnia che Antonio Liotta aveva deciso di pubblicare. Non come un libro omaggio di un gruppo di amici, ma proprio come uno dei testi più qualificanti della sua nascente casa editrice. Tante avversità della vita. Non per nulla nei Colpevoli aveva profetizzato pure il suo loculo:murato in quinta fila dove è pure molto difficile salire per portare un fiore. Dopo tanti anni anch’io mi sono arreso a quella scalata, ormai impossibile, dato che un paio di volte ho rischiato di cadere. Non mi resta che passare lì davanti e alzare lo sguardo, ma ora anche questo alzare la testa, come uno sguardo d’intesa , deve fare i conti con l’artrosi cervicale. Passo, guardo e dico “Peppe, non potevi scegliere una fila più in basso? Neppure un fiore ti posso più mettere accanto alla foto” .
Testimonianza di Antonio Liotta
Giuseppe Nicotra, senza nessuna remora, è il Poeta, il cantore illuminato che ha saputo unire in un unico filo conduttore la poesia classica e sperimentale ponendosi sul piano della dissacrazione per esaltare la bellezza che la creazione poetica sa esprimere.
I suoi testi sono luce variopinta che squarcia ogni forma di stratificazione ‘mummificata’ letteraria. Con forte ritardo, su quanto programmato, entro l’anno uscirà il volume che conterrà le opere edite (I colpevoli, L’uso delle parole) e l’inedita raccolta ‘Luminarie’ a cui ha lavorato -anche come correzione di bozze- prima della sua morte.
Medinova, in collaborazione dei carissimi amici che nell’insieme abbiamo lavorato come Gruppo ADES (Rino Garraffo, Alfonso Lentini, Antonio Patti ed il sottoscritto), valorizzerà nel migliore dei modi possibile la parola poetica di un vero creativo che della coerenza e dell’impegno culturale ne ha fatto una ragione di vita.
Giuseppe Maurizio Piscopo