L’intervistatore ufficiale di SiciliaOnPress, il poliedrico Giuseppe Maurizio Piscopo, ha incontrato Giacomo La Russa, classe 1969, giovane avvocato agrigentino molto creativo. Ne è venuta fuori una “riflessione a tutto campo” sul mondo degli avvocati; sulla letteratura e sui problemi siciliani vecchi e nuovi; sulle rotte degli emigranti, ai quali La Russa, ha dedicato un interessantissimo romanzo dal titolo “La storia di Jason”. Siamo certi che questa intervista farà riflettere i nostri lettori ed aprirà una discussione costruttiva per la Sicilia che verrà.
Giuseppe Maurizio Piscopo
Cosa è diventato il mestiere di avvocato oggi?
Il mestiere di avvocato vive oggi una delle fasi più problematiche della sua storia. La crescita esponenziale del loro numero, le politiche di liberalizzazione e di abbattimento dei minimi tariffari (tendenti a favorire le grosse società di servizi), gli interventi normativi convulsi e scombinati e, infine, lo scandalo delle università private ed un impressionante scadimento culturale hanno ridotto il ruolo dell’avvocato da fulcro della società, da figura professionale che si affermava dopo aver compiuto un effettivo apprendistato ad una sorta di tecnico che opera sperduto nel mercato, di esperto con sempre minore dimestichezza con l’“italiano” e sempre maggiore ansia per nuovi incarichi. Il mestiere dell’avvocato invece, proprio perché implica capacità complesse (tecnico-giuridiche, logiche, umane, filosofiche, psicologiche, ecc…), per la delicatezza degli interessi in gioco e la stessa natura creativa che gli è propria (l’avvocato rimane un artigiano e non un commerciante che vende un prodotto), dovrebbe essere ripensato attraverso l’adozione di una serie di misure di cui la classe politica attuale, assoggettata all’ordine liberale delle multinazionali, non ha alcuna idea.
Come vivi ad Agrigento definita da Pindaro la città più bella dei mortali ?
La città di Agrigento non è più quella che cantava il poeta greco. Pochi decenni di dissennata attività edilizia l’hanno definitivamente trasformata da borgo medievale in irriconoscibile aggregato moderno. E’ come se una nuova città fosse stata addossata, con la forza del suo cemento, sulla città antica. Se a questo aggiungiamo la scomparsa del popolo contadino che abitava il centro storico (un popolo produttivo e portatore di una civiltà), la sua sostituzione con l’esercito di funzionari ed impiegati e, sostanzialmente, la terziarizzazione delle sue attività economiche, possiamo avere l’inevitabile quadro di una città sofferente. In fondo, è come se fossimo a lutto. Ci muoviamo tra tolli, cestelli della differenziata ed orde di auto, come piccoli fantasmi che hanno smarrito qualcosa. Urbanesimo, antropologia, economia e cultura si legano anche qui in un tutt’uno che non ci dà alcuna speranza. La luce, gli squarci di mare, la valle dei templi (sequestrata alla città), lo stesso afflusso di immigrati africani (ghettizzati ed estranei alla popolazione locale), un po’ di turismo stagionale e qualche timido tentativo di gentrificazione non possono bastare.
Hai scritto un romanzo dal titolo La storia di Jason. Quando nasce e che cosa vuoi comunicare con questa storia?
La storia di Jason nasce dal bisogno di raccontare, di trasformare un’esperienza individuale in un fatto collettivo. Al di là dei fattori contingenti che possono dare vita ad un libro, ogni scrittura ha sempre radici profonde e, in parte, indecifrabili. Questo romanzo viene fuori da un fatto giudiziario realmente accaduto: la vicissitudine di un nigeriano accusato di avere ucciso un immigrato durante la traversata verso Lampedusa. Ma non ho inteso farne né una cronaca né tantomeno un giallo. In realtà, esso è l’incontro di due solitudini destinate a rimanere tali: quella del nero che si dichiara strenuamente innocente e quella del bianco chiamato a difenderlo (con tutte le angosce, i dilemmi e i dissidi di coscienza che ogni difesa mette fatalmente in gioco). Ma La storia di Jason vuole essere probabilmente di più. Un’amara riflessione sul sistema giudiziario e sul tema del destino. Un viaggio attraverso la Sicilia e la sua storia. E, in definitiva, il tentativo di ricondurre la stessa realtà del diritto dentro il generale processo di colonizzazione dei Sud del mondo. In questo senso, può ben dirsi che Jason, colpevole o meno, costretto ad imbarcarsi per fuggire dalla guerra e dalla miseria, rimane, in ogni caso, una vittima di questo ingiustificabile sistema.
Prima il mare era il luogo dell’ incontro delle civiltà, cosa è diventato oggi?
Il mare può essere luogo di incontro delle civiltà, come lo è stato a lungo durante la Magna Grecia, quando l’incontro avviene su basi tendenzialmente paritarie. I popoli, le genti, gli esseri umani dovrebbero comunicare, scambiarsi le esperienze e i prodotti, spostarsi ed emigrare partendo da realtà tendenzialmente autosufficienti. L’esistenza invece di veri e propri sistemi di dominio è alla radice di questi fenomeni di sradicamento che non possono che produrre sopraffazioni, sfruttamento, razzismo e conflitti. Bisognerebbe allora agire alla radice, tentare di costruire, al Nord come al Sud, società socialiste interconnesse tra loro, restituire ad ogni popolazione risparmio e capacità produttiva, chiuderla con l’assurda teoria ricardiana dei vantaggi e dei costi comparati. Ma purtroppo la globalizzazione o, meglio, la multinazionalizzazione dell’economia va in un senso del tutto inverso e fa il gioco delle grosse multinazionali che continuano ad accrescere la loro capacità di creare concentrazioni produttive e finanziarie. Ma la questione rimane la stessa: il capitalocene (ossia, il capitalismo che mira, per ragioni organiche alla sua stessa natura, alla distruzione del pianeta) non è riformabile. Le nuove pandemie ne sono una prova tangibile. Per cui è chiaro che, in queste condizioni, anche il mare non può che diventare luogo di morte e di repressione.
I migranti arrivano in Sicilia dalla Libia e da altre parti dell’Africa e vengono freddati dalla pistola di un avvocato sceriffo, falso eroe della nuova cultura dell’accoglienza…
Sì, penso che bisogna rifuggire da analisi superficiali. La vicenda dell’avvocato sceriffo pone, in realtà, un problema vero. L’accoglienza rimane un valore essenziale di ogni civiltà, specie di quelle che, come la nostra, si richiamano all’antico mondo greco e sono state a lungo così impermeabili all’utilitarismo anglosassone. Ma il tema della concorrenza della manodopera e dell’impressionante ribasso del costo del lavoro, lo sfruttamento degli immigrati e la loro riduzione in condizioni quasi schiavistiche, insieme alla loro ghettizzazione all’interno di precise aree urbane sono questioni reali che richiedono scelte radicali di cambiamento. Il problema non è consentire la libera circolazione delle persone dal momento che esiste la libera circolazione delle merci e dei capitali. E’ proprio rimettere in discussione questo mantra, questo assurdo assioma, la questione. Capisco che è più facile prendere atto delle forze in campo, del dominio dei trattati e delle multinazionali. Ma è una resa, l’implicita ammissione di una sconfitta. Occorrerebbe invece lavorare, all’interno di ogni singola comunità territoriale, per unire tutte le lotte (per l’acqua, per l’ambiente, per il diritto alla casa, per il diritto al reddito universale, per la sanità pubblica, per la riduzione dell’orario del lavoro, per la tutela di ogni minoranza e fragilità sociale, ecc…) nell’ambito di una prospettiva comune sanzionata dalla redazione di una nuova carta costituzionale di natura definitivamente precettiva. In questa direzione la rapida fuoriuscita dal capitalismo con la sottrazione di specifiche aree al mercato (gas naturali, petrolio, strade, istruzione, sanità, telecomunicazioni, ecc…) rimane la stella polare. Mi pare però che, in Italia, e al Sud in particolare, questa possibilità sia abbastanza remota. In questo quadro allora, è facile fare dell’immigrato, del clandestino, del nero, la causa di ogni male, il nemico sul quale il quale scaricare tutti i sentimenti di alienazione sociale.
E’ ancora attuale un carcere che “reprime e non salva nessuno”?
E’ vero, il carcere non redime e non salva nessuno. Ma la questione mi sembra assai complessa. Tempo fa Luigi Manconi ha pubblicato un libro, Abolire il carcere, in cui descrive l’istituto carcerario come un radicale fallimento. Esso non solo sarebbe fortemente lesivo della dignità delle persone ma, dati alla mano, determinerebbe un aumento del tasso di criminalità. Sicché l’autore ne propone la graduale abolizione. Punire sì ma in maniera effettivamente rieducativa: dunque, con misure alternative. Per quanto apprezzabile, mi sembra però una posizione ancora abbastanza angusta. Qui il problema vero rimane infatti quello di comprendere cosa sia, in realtà, il carcere, chi ci vada generalmente a finire e perché. Insomma, non si tratta solo di rendere meno degradante la pena; si tratta di avere chiaro il fatto che un sistema concentrazionario come quello carcerario riflette i rapporti di potere presenti all’interno della società. Il carcere, insomma, è lo specchio della nostra realtà. Esso raccoglie, per oltre il 90%, quelle fasce proletarie e sottoproletarie, italiane e straniere, che costituiscono gli scarti della società, che non hanno un lavoro ed un’istruzione e che scivolano, a volte, quasi inesorabilmente, verso il circuito criminale. Per molti di essi, il carcere è uno stile di vita, un sistema che disciplina e regola l’esistenza, un mondo dal quale volere uscire per volervi subito dopo rientrare. Insomma, il diritto penale è essenzialmente una questione sociale. Ed è su questo terreno che occorrerebbe seriamente lavorare, assicurando ai più svantaggiati, a chi ha meno capitale culturale ed economico, non solo un reddito dignitoso ma dei servizi di sostegno che instaurino con gli ex detenuti dei percorsi di confronto dialettico.
A cosa serve la letteratura?
In questa società dello spettacolo, dove l’unica cosa che conta è acquistare e consumare, dove ogni essere umano è ridotto al rango dell’utente o del consumatore, la letteratura, come tutta l’arte, serve a ben poco. Essa è pura evasione, sterile hobby. Si legge un libro come si può mangiare una pizza, per puro consumo. Il libro non è quasi mai parte di un faticoso percorso di ricerca. Ecco, dunque, lo straordinario successo, specie negli ultimi decenni, di moltissima spazzatura. Non si cerca più di orientare, di affinare il gusto del pubblico. E’ lo stesso editore che, per ragioni puramente commerciali, fa il vezzo al lettore, che lo coccola, che ne esalta la superficialità, istituendosi un corto circuito di pessima qualità. La logica del profitto domina ormai anche in campo letterario. La letteratura perde in questo modo ogni autenticità, ogni capacità di sconvolgere, di segnare, di produrre piccole rotture rivoluzionarie riducendosi a fabbricazione seriale, a produzione industriale (Camilleri). Ora, senza volere attribuire all’arte alcuna missione salvifica, per svolgere pienamente la sua funzione, essa presupporrebbe da parte nostra un affidamento totale, una dedizione straordinaria. Ma come può conciliarsi questo bisogno di ricerca quasi totalizzante con le pressioni della vita quotidiana, con la necessità impellente di lavorare per vivere o per sopravvivere? Ecco allora la scissione, la distanza dal bisogno, come scriveva Bourdieu. Ed ecco perché l’arte e la letteratura non sono affatto estranee al tipo ed alla dinamica dei rapporti sociali ed economici: ciò che spiega ampiamente la ragione per cui, all’interno dell’attuale società capitalistica in cui la possibilità di lavorare e di vivere è nelle mani dello Stato o dei gruppi privati, a cui tu sei costretto a dare il tuo tempo, le tue energie e dunque la tua vita, esse finiscono con lo svolgere quella funzione puramente marginale ed hobbistica. Sotto questo profilo allora, il problema del tempo è un’altra delle ragioni fondamentali che militano per la costruzione di una società socialista. Impedire le concentrazioni delle ricchezze, assicurare che la ricchezza prodotta da un’intera comunità sia ridistribuita alla sua base senza sottrazioni, privilegi e taglieggiamenti vari, significherebbe recuperare tanto tempo da dedicare magari all’arte ed alla letteratura: mondi che non vanno affatto mitizzati ma che vanno semplicemente studiati e analizzati per potere essere pienamente compresi ed amati.
Qualcuno ieri sui giornali ha invitato gli scrittori a impegnarsi di più …
Ogni forma di impegno è, in linea teorica, un fatto positivo. Bisognerebbe però capire a quale fine e con quale visione di società. Non scopro nulla di nuovo dicendo che quello che è forse il più grande scrittore siciliano, Giovanni Verga, non esitò a schierarsi contro gli operai milanesi o contro gli stessi Fasci siciliani. Per non parlare di Luigi Pirandello e dei suoi noti rapporti col fascismo. Se parliamo invece di un intellettuale come Giuseppe Fava, ecco, mi sentirei di sottoscrivere pienamente l’invito di cui parli. Purtroppo non vedo all’orizzonte scrittori di questa portata. Mi sembra, insomma, che lo scenario sia piuttosto mediocre, che anche gli intellettuali si siano, in fondo, accodati all’ideologia dominante secondo cui la storia sarebbe finita e bisognerebbe solo barcamenarsi esprimendo qualche vaga opinione sui problemi del tempo o i personaggi del momento. Occorre invece recuperare le grandi idee e le grandi questioni. Prendi il Sud o la Sicilia, per esempio. A fronte della spaventosa ripresa dell’emigrazione, specie delle zone interne, conseguenza inevitabile della desertificazione produttiva subita per una precisa scelta dello Stato unitario, mi sembra che quelli che dovrebbero essere i nostri intellettuali continuino ad affidarsi a formule di spiegazione antropologica che non hanno alcun fondamento scientifico e servono solo a lavare la coscienza di quelle classi dominanti che poi li finanziano (in termini di case editrici, quotidiani, riviste, ecc…). Perché, in una società solo apparentemente libera e democratica, in cui i condizionamenti sono spesso assai sottili, in cui funziona una fortissima forma di autocensura e in cui si sa bene cosa il padrone vuole che tu dica per farti apprezzare ed assumere, tutto inevitabilmente si tiene.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Continuare a fare esattamente quello che faccio.