di Alessio Rossano
Nel continuo disequilibrio fra caos e cosmo, nel periodo in cui il sole ha reso mature le messi per gli uomini, ritorna ciclicamente la stazza nera di Calogero, bel vecchio con la barba da saggio, il cartaginese che la leggenda ha voluto curatore dei più deboli in un periodo di epidemia che ha sicuramente traumatizzato la storia della città.
La sagoma di Calò si sostanzia e si radica in coloro che hanno aspettative negative dovute agli andazzi di vita, ed anche se oggi le classi sociali si vanno sempre più omologando fra di loro, è in particolare la classe popolare che invoca le attenzioni del santo, lo stesso popolo che in passato (fatte nette le distinzioni con le classi egemoni) esperiva quotidianamente il disagio della precarietà vissuta nella fatica del lavoro e nella pochezza delle risorse. Tanto più che nella nostra economia isolana, il culto era fruito in prevalenza dal sostrato contadino: rilevante allora è l’importanza dell’uomo che doma la natura e ne gode i frutti.
Perchè non dirlo? La festa è anche il trionfo sulla natura e l’esuberanza per il buon raccolto, giacchè la Sicilia è generosa di spighe dorate, e proprio giugno è il periodo della raccolta del frumento. Calogero però raccchiude in sè segnali ulteriori (ancora motivo di mie astrazioni).
Calogero fà la grazia!… Evviva San Calò!!! A lui dedicati gli ex-voto, fatti di pane, secondo la parte del corpo guarita al miracolato. Calogero ha il colore del sole d’africa e sembra portarlo per tutto l’anno con se per dispensarlo come portatore di energie nuove a chi sente le forze venir meno…San Calò aiutami tu….!
E ‘ssi ‘cci fà a prumisa (la promessa) di purtallu ‘ncoddru di ‘cca n’fina a ddra punta. (di portarlo in spalla da… a…). Jsàtilu!!!!!! ( Alzatelo ) Alzare Calogero, al cospetto dell’astro infuocato per ricaricarlo di nuove energie che poi dispenserà nuovamente.
Il calore curativo che lo permea e lo sovrasta, lo fa sudare, la sua faccia gronda stille, i fedeli però (tra-)salgono sulla vara e gli asciugano il sudore, altri (in memoria della sua predilezione dei più deboli) avvicinano i bimbi che lo baciano, come per dargli forza, perchè la via è lunga. E prigamu a ‘ccu ‘nn’ aiuta!!!! (preghiamo chi ci aiuta)
Tutti lo toccano, lo baciano, chi si commuove e fa il segno della croce…tutti lo incoraggiano e lo spingono…tutti lo portano ed altri lo seguono come se lo portassero. Diceva il mitologo che “il rito è la forma operata del mito” e Calogero in quanto figura mitica, è contornato dall’aurea eroica e portato in trionfo ritualmente per la città, e a lui gli agrigentini lanciano il pane, sublime arma che sconfiggerà la miseria. Quello stesso pane è il prodotto della fatica della terra, la cui produzione ha impegnato tutta la famiglia per mesi: è il simbolo del lavoro, è il simbolo della vita. Nel momento in cui Calogero è riportato alla luce, fuori dal santuario, s’interrompe il tempo normale, ed ha inizio il tempo rituale scandito dai tamburi, dalle urla e dai lanci di pane all’eroe del tempo mitico: con il caos del rito si ristabilisce socialmente un nuovo ordine, in memoria di Calogero e della sua storia la comunità si riafferma, mettendo in scena le azioni dell’eroe come accaddero in illo tempore.
E’ in questo modo che la festa di Calogero ha un senso, se la s’inquadra a mio parere in questo contesto. La ritualità tumultuosa e per niente ortodossa può avere solo così una sua spiegazione, e tutti i tentavi della chiesa di “aggiustarne” i tempi e i modi andrebbero a snaturare i reali scopi per i quali essa ha luogo. E ci si appiglia alla profanità della conduzione, alla paganità degli idoli……ma, io penso, che ogni agrigentino, malgrado tutto aspetti le domeniche di luglio per ritornare…ad alzare Calogero.