Giuseppe Maurizio Piscopo
In attività da oltre trent’anni sia come autore e interprete che come produttore discografico sul fronte del recupero e della promozione del patrimonio linguistico e musicale in siciliano, ha pubblicato quattro lavori discografici a sua firma tra il 1991 e il 1997 considerati un vero e proprio “corpus sulla canzone d’autore in dialetto”.
Nel 1996 ha ideato l’etichetta discografica indipendente “Teatro del Sole” che ha diretto per oltre dodici anni curando la riedizione in CD dei capolavori in vinile di Rosa Balistreri e di due suoi dischi di inediti tra cui “Quannu moru” e “Rosa canta e cuntu”.
Di recente ha annunciato il ritorno all’attività concertistica con il proprio repertorio e con due nuovi lavori. Uno di questi, dedicato al suo repertorio umoristico, avrà come titolo “Troppu very well” e sarà a cura di Edoardo De Angelis e Giovanni Nanfa.
Come e quando nasce la tua passione per la Musica?
Mi è stata trasmessa da mio padre che non è stato (né è, dato che è ancora tra noi) un musicista. Ma quando alla fine degli anni ’50 ci trasferimmo in uno dei nuovi quartieri popolari di allora (il Villaggio Santa Rosalia), la mia famiglia fu una delle prime ad avere due oggetti straordinari per quegli anni: il televisore (un enorme cubo nero) e il registratore, un piccolo Geloso con 4 tasti coloratissimi! Registrare il Festival di Sanremo e quello della canzone napoletana per poi riascoltarne per giorni e giorni le canzoni fu, per molti anni, un rito di famiglia. Così per altri programmi.
Come eri da bambino, ricordi il tuo primo giorno di scuola, il Maestro, i tuoi compagni, l’atmosfera di quel tempo a Palermo?
L’unico ricordo netto che ho dei primi anni di scuola è l’esame di seconda elementare: la maestra Intorre (così si chiamava) ci chiamò alla cattedra uno ad uno facendoci due domande a testa. Nel mio caso una sulle tabelline e l’altra… la capitale d’Italia. Diedi le risposte e lei “Promosso, puoi andare”!
Nei tre anni successivi ho avuto invece un maestro (mi pare si chiamasse Saladino) severo e amorevole al tempo stesso. Il ricordo di quegli anni è perciò molto sereno. E ciò nonostante in classe fossimo poco meno di trenta e tutti diversissimi per estrazione sociale.
Una delle primissime cose della scuola che però mi affascinò furono le grandi cartine geografiche! Probabilmente perché mi diedero immediatamente l’idea di quanto grande potesse essere il mondo fuori dal quartiere. Ancora oggi mi è rimasta la passione per le carte geografiche.
Che cos’è stata la strada nella tua infanzia?
Tantissimo. Forse il principale luogo di confronto, d’incontro e, seppure in pochissimi casi, anche di scontro con gli altri. Ho imparato lì i rudimenti del relazionarsi con gli altri, attraverso i giochi di strada. Alcuni erano sotto sotto veramente crudeli, come “u jocu da strummula”! Devo però dire che, appartenendo a una delle tante famiglie numerose di quegli anni, anche in casa non mi mancava gioco e compagnia.
Hai studiato musica al Conservatorio o privatamente?
Non ho fatto degli studi regolari di musica. Nonostante qualche tentativo alla fine sono rimasto un autodidatta con una grande curiosità per la teoria musicale. Ciò mi ha portato a leggere tanto sull’argomento fino ad acquisire, penso e spero, le conoscenze di base sufficienti per scrivere e cantare.
Come hai imparato a suonare la chitarra?
Fu agli inizi delle superiori che incontrai la chitarra grazie ad un compagno di scuola che già sapeva suonarla. Si chiamava, perché purtroppo ci ha lasciati da qualche anno, Paolo La Puma. Io avevo scoperto da tempo la passione per lo scrivere e, oltre a delle poesie, riscrivevo i testi di canzoni note. Venne presto però la voglia di scrivere anche la musica o, meglio, la melodia delle mie canzoni. Ne parlai con Paolo che era anche il mio più caro amico di quegli anni. Lui era soprattutto un musicista e aveva qualche ritrosia rispetto all’occuparsi anche dei testi. Eravamo già arrivati intanto agli inizi del ’68 e c’era appena stato il terremoto del Belice. Fu così che scrivemmo insieme un paio di canzoni (molto acerbe in verità) dedicate a quegli eventi. Nella sua grande generosità e affettuosità Paolo si rese conto che potevo fare da solo e che per farlo dovevo imparare a suonare la chitarra. Ma erano anni molto difficili per la mia famiglia e non era possibile comprarmene una. E allora Paolo mi prestò la sua per diversi mesi, mi guidò in tutto e trascrisse su dei quaderni le posizioni del metodo di Paul Kent “Chitarristi in 24 ore” in voga in quegli anni. In estate sapevo già accompagnarmi nel canto. Dovetti però restituire la chitarra a Paolo e mi tenni allora in allenamento per alcuni mesi con una tastiera di chitarra disegnata su un listello di legno che avevo fatto su misura. Qualche mese dopo arrivò finalmente una nuova chitarra: mi cedeva la sua sulla quale aveva fatto pochi progressi quello che poi sarebbe diventato mio cognato. Acquistai la mia prima chitarra solo nel 1973, all’età di 21 anni, quando potevo finalmente permettermelo perché lavoravo all’Enel. Si trattò di una Ranger Eko 12 corde elettrificata che ancora ho.
Hai dedicato 30 anni al recupero del patrimonio linguistico e musicale delle tradizioni della Sicilia? Pensi che i giovani di oggi siano interessati a questo recupero?
Penso di sì. Com’è noto uno dei fenomeni sociali che hanno generato e generano ancora grande inquietudine e angoscia è la cosiddetta “globalizzazione”. È fuori da ogni dubbio che per la stragrande maggioranza sia terrificante l’idea di un “mondo semplificato” in cui tutto è uguale e standardizzato in ogni posto: i sapori, la lingua, la musica, i modi di vivere, di vestire, di pensare e così via. Con l’aggravante che le finalità di un processo del genere sono sostanzialmente di carattere economico e speculativo e non certo di carattere umanitario.
I giovani hanno percepito questo pericolo segnalato sin dal suo manifestarsi dagli osservatori più attenti, così come hanno recepito quello che questi ultimi hanno indicato come potente antidoto per contrastare questo “malanno”: il recupero e la valorizzazione della ricchezza dei patrimoni locali in tutte le manifestazioni, considerando quindi la varietà e la diversità come valori ancora prima che come ostacoli. In questo il patrimonio linguistico, culturale e musicale ha ovviamente un ruolo preminente.
Sei stato definito dalla critica Autore fertile e innovativo… Da dove nasce questa definizione?
Tale definizione è da considerare in relazione alla scelta di scrivere e cantare in siciliano, cosa questa che nasce preminentemente dall’intenzione di voler affermare la dignità della mia identità linguistica originaria. Appartengo, infatti, a una di quelle generazioni che soprattutto negli anni ’60 si videro negare, con metodi praticamente coercitivi, l’uso del dialetto a scuola. Quegli stessi anni, d’altronde, furono anche quelli della grande emigrazione interna verso il nord e i dialetti meridionali (con esclusione del napoletano) furono particolarmente osteggiati e presi di mira.
E mentre nell’unico canale televisivo allora esistente il genovese di Govi e il napoletano di Eduardo erano considerati cultura, il dialetto siciliano e i siciliani erano rappresentati sempre in modo ridicolo e derisorio.
Com’è noto, saranno necessari il “Ci ragiono e canto” di Dario Fo e monumenti come Rosa Balistreri, Ignazio Buttitta, Ciccio Busacca, Pino Veneziano insieme ad altri ancora per far cessare questo stato di cose.
La possibilità di scrivere e cantare in siciliano per me e per tutti gli altri è stata uno dei frutti diretti di tutto questo. Ma bisognava anche andare al di là, superare gli stereotipi, “produrre nuovi fiori da queste radici” come dicevo allora. Bisognava soprattutto sconfiggere l’ancora imperante “folklore finto” lasciatoci in eredità dal Fascismo e portato avanti da decine e decine di “gruppi di canterini per turisti”.
Da lì la scelta di tentare uno sviluppo in armonia con le radici vere del canto in siciliano proiettato al tempo stesso in avanti nelle forme e nei contenuti. Una sorta di attualizzazione del linguaggio musicale e testuale. Oggi sembra del tutto naturale, ma oltre trent’anni fa, quando avviai la collaborazione con musicisti come Giuseppe Greco, Giuseppe Cusumano e Agostino Cirrito, l’uso di chitarra elettrica, sax, quartetto d’archi e altro non era affatto considerato né “normale” né accettabile nel canto in siciliano.
Leggendo attentamente il tuo curriculum: hai rivolto grande attenzione ai grandi cantautori: De Andrè, Tenco, Gaber, Bindi, Lauzi, Guccini, De Gregori che cosa rappresentano per te questi grandi interpreti?
A questi ne andrebbero aggiunti altri come Endrigo, Bertoli, Fossati e, soprattutto, il mio carissimo amico Edoardo De Angelis dal quale sento di avere imparato tantissimo. Considero tutti questi grandi Autori “l’Università” che ho avuto la fortuna di frequentare …stando a casa! L’insieme dei loro repertori costituisce un “corpus letterario” (quindi non solo musicale) vastissimo nelle tematiche e nelle forme espressive davvero straordinario. A tutte queste fonti mi sono ovviamente ispirato tantissimo in età giovanile. La scelta di scrivere in siciliano, infatti, non fu immediata. Le mie prime composizioni furono esclusivamente “in lingua”. Seguì un periodo “misto” e nella seconda metà degli anni ’70 ho scelto di scrivere solo in siciliano. Ma fino a quel punto avevo già collezionato 6 o 7 album in italiano alo stato pressoché inediti. Parlo di “album” perché ho sempre scritto non considerando mai le mie canzoni come “episodi isolati” ma come facenti parte di un percorso più ampio. Alla fine ho sempre composto dei “concept” ossia degli album a tema, forma evidentemente mutuata soprattutto da De Andrè.
Puoi raccontare brevemente delle iniziative culturali dell’Associazione Cielozero?
Cielozero nacque intanto dall’esigenza di avere un soggetto che potesse relazionarsi con gli enti che finanziavano le attività culturali e, come per tanti altri, fu una scelta determinata dall’assoluta mancanza di strutture produttive e imprenditoriali in campo artistico e musicale che affligge soprattutto questo nostro territorio. A riguardo credo sia arcinoto come ancora oggi tantissime sedicenti associazioni culturali altro non sono che “ditte individuali”. Cielozero ebbe però sin dall’inizio una “vocazione corale”: non è stata mai incentrata esclusivamente sul mio progetto artistico. Questo perché sin da quando ho cominciato a vedere con i miei occhi la nuda e cruda realtà di “questo ambiente”, mi sono reso conto che solo con una “politica di fronte comune” si poteva sperare di cambiare qualcosa, mettendo insieme le energie migliori nella speranza di acquisire forza e visibilità. L’alternativa era accodarsi, farsi un padrino e tentare la “scalata” nella lotteria dei contributi pubblici! Ma a questo io ho rinunciato immediatamente. Fu proprio la “vocazione corale” mia e degli altri straordinari musicisti che ho avuto la fortuna di avere vicino che hanno portato poi alla nascita dell’etichetta discografica “Teatro del Sole”, naturale sviluppo di Cielozero.
Hai diretto l’etichetta: “Teatro del sole”, pubblicando 60 titoli, di cui 10 dedicati a Rosa Balistreri, con dischi “Rari e introvabili”… Come mai all’improvviso finisce l’esperienza di “Teatro del Sole”?
Intanto un dato oggettivo a mo’ di premessa: dei 60 titoli di cui mi sono occupato in vario modo per “Teatro del Sole”, soltanto uno è a mia firma, ovvero contiene mie registrazioni. Si tratta di “E semu ccà” del 1997. I miei primi tre lavori, infatti, furono pubblicati con Cielozero e non sono mai stati ristampati per essere inseriti in quel catalogo.
L’attività di “Teatro del Sole” prende l’avvio nel dicembre del 1996 con la riedizione in CD di uno dei capolavori di Rosa in vinile (“La Voce della Sicilia”) e si “ferma” nel 2007 con altri due dischi ancora dedicati a Rosa. Sin dall’inizio, infatti, una delle finalità principali del progetto fu la pubblicazione in CD dell’opera discografica di Rosa che, essendo in vinile, rischiava di cadere nell’oblio dal momento che lei ci lasciò proprio nel periodo in cui il vinile veniva abbandonato (oggi in realtà sembra proprio tornare).
Non ho la presunzione di affermare che se non l’avessi fatto io non l’avrebbe fatto nessuno. Posso però dire di averlo fatto senza esitazione e senza nulla risparmiare in ogni senso. Sono in molti a sostenere che il mio lavoro sia stato fondamentale per la diffusione dell’opera di Rosa. D’altronde è regolarmente avvenuto che ad ogni disco di Rosa pubblicato da Teatro del Sole sia seguita immediatamente la sua diffusione (diciamo “pirata”) da parte di altri attraverso i siti di condivisione della musica. Ovviamente non ho mai scritto o detto nulla contro questo fatto perché, almeno rispetto all’intenzione di diffondere la “voce di Rosa”, compensava i limitati mezzi che “Teatro del Sole” aveva a disposizione per la distribuzione.
Il catalogo di “Teatro del Sole”, in realtà, meriterebbe un’analisi a sé stante (e, se lo ritieni utile, possiamo tornarci in un’altra occasione) per spiegare come mai l’opera di Rosa Balistreri sta insieme ai primi due dischi di Francesco Buzzurro, al primo di Mauro Schiavone, a una produzione originale del M° Ennio Morricone per la cantante sarda Clara Murtas, a due dischi “calabresi” e a due cofanetti con i “Musicanti del Piccolo Borgo”, gruppo storico del cosiddetto folk-revival dell’Italia centro-meridionale. Per non parlare di tutti gli altri titoli dedicati alla Sicilia e agli artisti siciliani.
Con questa ricchezza alle spalle, nel periodo che (sapremo poi) coinciderà col suo ciclo finale, “Teatro del Sole” ha intorno a sé una folta squadra di musicisti e sostenitori determinati e convinti (così sembrava) di poter imporre finalmente una svolta significativa al modo di “fare e pensare musica” in Sicilia. Gli strumenti ci sono tutti: il “Vucciria”, un festival nascente finalmente aperto a tutti gli artisti siciliani con la finalità di superare le innumerevoli fratture e contrapposizioni territoriali che da sempre affliggono la musica siciliana; una bandiera straordinaria, Rosa e la sua opera per la quale si avviava un progetto che doveva portare alla costituzione di una Fondazione dedicata a lei e basata sull’azionariato popolare; un catalogo credibile e di alto prestigio capace di rappresentare tutti senza particolarismi; una serie di proposte mirate a superare il clientelismo e lo spreco intorno ai finanziamenti destinati alla cultura e alla musica.
Ma questo era il sogno o, meglio, il sogno di alcuni perché in realtà non eravamo una “squadra” ma, per il modo di essere di tra noi, una sorta di “consorzio”. Alla vigilia dei “grandi passi” sono stati sufficienti alcuni iniziali e impercettibili allontanamenti per capire quello che stava per succedere e non fu ovviamente un caso isolato. Vinse l’idea che quella della musica è una strada individuale e, molto spesso, individualistica. Con forme diverse e più o meno corrette, gli allontanamenti diventarono abbandoni e tutto “si fermò”.
Ne presi atto e per qualche anno mi sono ritirato ad occuparmi a tempo pieno di mio figlio che aveva poco più di due anni.
C’è stato un periodo che ti ho visto molto presente nel panorama artistico siciliano, con nuove produzioni, presenze sulla stampa, in tv, poi un lungo silenzio. Che cosa è successo?
A distanza di tempo penso di poterlo dire con serenità: temo di aver male interpretato a suo tempo il significato di “conflitto di interessi”. Con l’avvio dell’attività di “Teatro del Sole” e con la pubblicazione dei suoi primi titoli (tra i quali il mio “E semu ccà”), ho avuto immediatamente la sensazione che il progetto potesse essere frainteso e che io potessi essere oggetto di critica: come distinguere il produttore discografico che si occupa della musica degli altri dal produttore che produce sé stesso? Avrei trattato e promosso allo stesso modo i lavori miei e quelli degli altri? Sarei stato credibile o avrei dato l’impressione di costruire un sostegno alla “mia musica” piuttosto che alla “musica di Sicilia” come promettevo? Probabilmente ci sarà stata una strategia meno penalizzante nei confronti del mio lavoro di Autore e interprete che non ho trovato. Credevo e contavo molto in “Teatro del Sole” come occasione importante per la musica siciliana e ho fatto la scelta di maggiore garanzia rispetto a questo obiettivo preminente: ho scelto l’autocensura riducendo al minimo l’attività sul mio progetto artistico. Da qui il lungo silenzio e l’assenza di nuove pubblicazioni a mio nome.
De ssa terra a ssu xelu” segna una importante collaborazione con il Maestro Ennio Morricone e con i suoi musicisti e con la cantante Clara Murtas, ne vogliamo parlare?
Fu un’impresa entusiasmante e titanica al tempo stesso, soprattutto dal punto di vista economico perché, come succede sempre agli “entusiasti”, le cose andarono molto diversamente da come previsto. Ma nonostante sia stato finanziariamente traumatico per Teatro del Sole, sono felicissimo di aver prodotto quel disco e di averlo fatto insieme alla carissima Clara, artista e persona straordinaria. Alla sua uscita alcuni critici musicali segnalarono quel disco come una delle cose più belle che il Maestro aveva scritto negli ultimi anni. Si tratta di una rielaborazione per solo e organico piccolo-sinfonico dell’Ave Maria tradizionale sarda, la stessa “Deus ti salvet, Maria” per intenderci che è presente in una rielaborazione elettrica nel disco di De Andrè conosciuto come “L’indiano”. Considerato il periodo in cui venne scritta e pubblicata, si scrisse anche che il Maestro e Clara Murtas avevano realizzato l’Ave Maria per il terzo millennio.
Vucciria, Buon Compleanno Rosa, era il 2007 tu eri molto presente nella scena siciliana?
Come dicevo prima, queste iniziative erano ideate e realizzate nell’ambito del più ampio progetto legato a “Teatro del Sole” e attingevano alla sua “vocazione corale”. Si trattava di iniziative che miravano a “fare fronte comune”. In particolare le due edizioni del festival “Vuccirìa”, ideato e progettato in strettissima collaborazione con Giovanni Callea, restano a parer mio i festival più “trans-provinciali” dedicati al canto in siciliano che siano mai stati realizzati. L’idea era quella di unificare le forze del canto in siciliano sotto un unico progetto che, ovviamente, non avrebbe avuto come baricentro soltanto Palermo. Non ebbe né futuro, né reciprocità. Io, solo per fare un esempio, non sono mai stato invitato a cantare dall’altra parte della Sicilia, soprattutto da quelli che in diverse occasioni ho invitato da questa parte.
Allo stesso modo, in quell’anno in cui ricorreva l’ottantesimo anniversario della nascita di Rosa, realizzammo “Buon compleanno Rosa” che raccoglieva le interpretazioni di quindici brani di Rosa da parte di altrettante voci femminili tutte siciliane e di diversa provenienza. Il disco che fu realizzato in quella occasione si chiude con un brano tratto da un ”Tributo a Rosa Balistreri” che ideai e realizzai in quello stesso anno: “Quannu moru” cantata da Clara Murtas, Fausta Vetere e Lucilla Galeazzi. Ancora una volta un progetto corale.
In altri termini ero sì molto presente nel 2007 ma come portatore di progetti che miravano a creare qualcosa che andasse al di là della mia stessa persona e del mio lavoro di Autore e interprete.
C’è stato un momento che hai sentito il bisogno di rendere omaggio a Fabrizio de Andrè, perché questo spettacolo?
Per Fabrizio ho partecipato alla realizzazione di due tributi, nel 2007 e nel 2009, entrambi col titolo ”Parole in Gennaio” e con un sottotitolo che recitava “per le parole che ci hai affidato in quel giorno di gennaio e per le parole che ognuno di noi avrebbe voluto dirti”. Io, come tanti altri, ho vissuto la scomparsa di De Andrè come un dolorosissimo lutto personale e come una perdita irreparabile che segnava in modo profondo la vita di tutti noi. Ancora oggi la sua assenza è un vuoto incolmabile che ci rende più soli. Pensa al valore che avrebbe la sua parola in questo tempo in cui hanno la meglio i violenti, gli stolti e gli ignoranti.
Penso però che l’omaggio più intenso o, comunque, più partecipato e per me più commovente che gli ho rivolto sia il riadattamento in siciliano de “La buona novella”. A parer mio, quelli della nostra generazione e delle generazioni adiacenti devono tantissimo a quel lavoro. Come me ricorderai che crogiolo rovente furono gli anni in cui uscì e come cupo e difficile era il clima intorno: avere vent’anni allora cominciava ad avere un senso diverso rispetto a quanto accadeva prima. L’ascolto di quel disco fu forse una delle cose che più mi hanno aiutato a scegliere e, spero, a crescere.
A dire il vero inizialmente intendevo riadattare solo “Tre madri”, sicuramente il momento più alto del disco che, peraltro, era stato riadattato già in altri dialetti. Ma intervenne un motivo preciso che mi portò a procedere nel riadattamento dell’intera cantata: avevo bisogno di chiedere profondamente scusa al Maestro e l’unico modo che trovai fu impegnarmi in un compito arduo e forse al di là delle mie capacità che mi costringeva a immergermi fino in fondo nel suo straordinario lavoro per comprenderlo meglio. Non ho mai reso pubblico questo pensiero. Il motivo era l’aver perorato e praticamente autorizzato la pubblicazione di una versione in siciliano di “Bocca di rosa” che contiene un passaggio che considero volgare e fortemente offensivo dell’originale. Non so come e perché questa cosa a suo tempo mi sia sfuggita. Me ne fossi reso conto per tempo avrei avuto forse la possibilità di intervenire. Ma chissà: l’entusiasmo, la goliardia, tutte le altre cose belle di quel disco e anche il non voler essere eccessivamente ingombrante nel lavoro di un altro, mi hanno portato a sottovalutare una cosa che invece diventò, sicuramente per me, terribilmente pesante subito dopo averla vista stampata nel catalogo di “Teatro del Sole”.
Qual è stato il tuo rapporto con Alfredo Lo Faro?
Ho conosciuto Alfredo nel 2008 e fu lui a volermi incontrare. Il tramite: il grande Francesco Buzzurro che già lavorava con lui. Era l’anno in cui mi ero ritirato: “Teatro del Sole” aveva sospeso le pubblicazioni e in giro cominciavano a sparire anche le residue tracce del mio lavoro di Autore e interprete.
Quello per Alfredo fu un anno drammaticamente particolare perché dopo aver pubblicato nel maggio di quell’anno “Made in Sicily – The Song” con cui inaugurava la sua etichetta discografica, nel dicembre di quello stesso anno ci lasciava tragicamente Mara Eli che, oltre ad essere la sua compagna, era un’Artista meravigliosa e la straordinaria interprete proprio di quel disco.
I nostri primi colloqui furono inizialmente “da e tra produttori”, anche perché Alfredo era interessato a conoscere più da vicino l’esperienza di “Teatro del Sole”. Quando qualche tempo dopo venne a conoscenza dei miei trascorsi di Autore e interprete, ideò il progetto “Era nicu però mi ricordo” che, in buona sostanza, rappresentò una sorta di riedizione ad alto livello del mio primo disco in siciliano ovvero “Li varchi a mari” del 1991. Nonostante per diversi motivi sia stato un processo lungo conservo un ottimo ricordo di questo lavoro, di come sia stato progettato e realizzato.
Particolarmente emozionante poi il concerto di presentazione al Teatro Politeama nel dicembre del 2012 con una bellissima orchestra diretta dal M° Valter Sivilotti che del disco aveva curato anche gli arrangiamenti. Un unico concerto senza repliche, purtroppo.
Qual è stato il tuo rapporto con il Maestro Walter Sivilotti?
Al M° Valter Sivilotti mi lega una bella e affettuosa amicizia che ci porta spesso a incontrarci anche per motivi professionali. L’ho conosciuto grazie a Edoardo De Angelis nel 2005. Quell’anno, infatti, fui invitato a partecipare alla manifestazione “Canzoni di confine”, ideata dal Maestro e che si svolge in Friuli. Ovviamente cantai in siciliano alternando così il nostro dialetto agli altri e alle tante lingue che si possono incontrare in una terra di confine come quella. Certi stereotipi ci portano a pensare che alcune caratteristiche siano peculiarità esclusive di noi meridionali: il Maestro Sivilotti e i suoi tanti amici friulani stanno al di là di questi stereotipi.
Ho verso di lui tantissimi motivi di gratitudine: il fatto che abbia scritto e diretto gli arrangiamenti straordinari per il disco che ho fatto con Alfredo, l’aver scelto le mie canzoni per bambini per uno straordinario lavoro didattico svolto con il Primo Circolo Didattico di Vittoria e con un coro di 150 bambini e anche l’aver inserito in un suo disco dedicato a Nicola Piovani la mia interpretazione della “Canzone del mal di luna” in una versione duettata in siciliano e friulano.
Ma il regalo più grande e inaspettato è stato l’aver proposto alcuni anni fa ad Antonella Ruggiero due miei brani, ovviamente in siciliano e arrangiati per orchestra, che la grandissima Antonella ha accettato di cantare nei suoi concerti.
Questi stessi due brani (“Li me jorna” e “Cala lu suli”) sono inseriti in un quadruplo di Antonella annunciato per questo autunno che ha per titolo “Quando facevo la cantante”. Raccoglie il meglio delle sue esibizioni live degli ultimi vent’anni di attività.
Conoscere il Maestro, allora, è stato un vero regalo fattomi dalla musica. Valter, infatti, non è solo un grande musicista ma anche un uomo straordinario, un vero Maestro. Corrisponde esattamente alla musica che scrive.
Qual è il tuo rapporto con il Teatro di Giovanni Nanfa?
Considero Giovanni, senza ombra di dubbio, uno dei miei punti fermi di questi anni recenti e, come sai, i punti fermi in questo lavoro sono una vera rarità. Per tantissimi anni ci eravamo incontrati solo fugacemente, avendo ognuno dell’altro notizie approssimative. Dal 2012 ho cominciato a frequentare il Teatro Jolly per assistere a dei concerti anche perché, da quando ha cominciato a dirigerlo e a curarlo lui, quel Teatro è diventato uno dei posti migliori per suonare e ascoltare musica di tutta l’Italia meridionale: ha un’acustica davvero favolosa, per non parlare dei suoi tecnici!
Nel salutarci, in una di queste occasioni, mi regalò “L’amore è un gioco”, uno dei libri che ha scritto davvero di altissimo livello e che non conoscevo. Così è cominciato un rapporto di conoscenza e stima reciproca che ci ha portato a condividere la scena già nella stagione 2015/16 con “Calia e simenza”. Stiamo ora scrivendo insieme “Ncantu e scantu (tanto è un gioco)”, prossimo lavoro che porterò in scena per questa prossima stagione del Jolly. Al di là del fatto professionale che con Giovanni risulta davvero gratificante, la cosa più bella resta l’aver scoperto una persona straordinaria, di grande sensibilità e intelligenza e, soprattutto, di una introvabile correttezza.
E qual è il tuo rapporto con Edoardo De Angelis?
Conosco Edoardo dal 1980 ed è allora impossibile immaginare la mia vita privata e artistica senza di lui. Ci siamo incontrati nel backstage della seconda edizione del “Cantamare”, una delle più longeve manifestazioni canore cittadine.
Lui era ovviamente tra gli ospiti della serata e aveva pubblicato da poco “Una storia americana”, tra le cose più belle che abbia scritto. Io, seppure poco meno che trentenne, ero tra gli emergenti in gara quella sera. Quella sua canzone l’avevo sentita qualche settimana prima a “Discoring” e mi aveva entusiasmato e, sbagliando, avevo pensato fosse uno da poco sulla scena. Mi presentai e cominciammo a parlare. Era stato pochissimo a Palermo e mi diede l’impressione di averne un’idea piuttosto “preoccupata”. Gli proposi di visitarla dopo lo spettacolo. Lo portai in giro tra i vicoli, il centro storico e siamo rimasti a parlare fino alle quattro del mattino scoprendo, tra l’altro, che di cose ne aveva già fatto davvero tante.
In quegli anni e negli anni immediatamente successivi la musica era per me solo un hobby: lavoravo all’Enel e nulla lasciava presagire che in meno di dieci anni nella musica ci sarei finito dentro fino al collo. Il nostro rapporto perciò andò avanti lungamente consolidandosi soprattutto sul fronte dell’amicizia e della stima reciproca. Il mio lavoro di allora mi portava spesso a Roma ed erano occasioni in cui ci incontravamo.
In realtà non c’è cosa di musica che io non abbia fatto che sia stata comunque condivisa con lui, seppure a vario titolo e con diversi livelli di coinvolgimento, dal semplice parere alla sua partecipazione diretta, è stato ed è un rapporto continuo.
A lui devo anche molte importanti opportunità come cantare in siciliano e ritrovarmi nello stesso con Dalla, Venditti, Ron, Minghi, Barbarossa, Branduardi, Francesco Di Giacomo e altri (già nel 1994 con “Piccola Italia”) o, per esempio, conoscere e condividere il palco in diverse occasioni con due giganti come Sergio Endrigo e Bruno Lauzi.
Oggi i progetti che abbiamo in comune sono tanti e tra quelli in programma a breve la produzione e la pubblicazione in autunno di un mio disco interamente dedicato al mio repertorio umoristico. Sua sarà la produzione artistica che si avvarrà anche dell’affettuosa consulenza di Giovanni Nanfa.
Oggi va di moda in Sicilia parlare del Siculish e di “Troppu very well”, quando ti sei occupato esattamente di questo tema?
In realtà credo di aver semplicemente sfiorato il Siculish in quanto tale. Penso, infatti, che con questo termine si faccia riferimento a quella “parlata” ricca di vocaboli di nuovo conio dovuta agli emigrati siciliani in America dei primi del secolo scorso e, soprattutto, ai palermitani.
Quando ho scritto “Troppu very well”, era il 1978 e lo spunto venne dal mio amico Franco Valenza, un collega dell’Enel che usava spessissimo questa singolarissima lingua quando voleva esprimere meraviglia e divertimento, non avevo affatto in mente “un emigrato” e nel testo non c’è nessun elemento che faccia pensare a un personaggio che si trova fuori dalla Sicilia. Il testo dice soltanto: “Nascivi nto’n paisi da Sicilia ma sugnu adottivo americanu”. La mia intenzione era quella di descrivere una sorta di spaccone alla Alberto Sordi di “Un americano a Roma” che si atteggia e fa il “galletto” qui da noi, in Sicilia. In tutto il testo cantato, poi, non c’è nessun vocabolo di “nuovo conio” (come osserverebbe il mio amico linguista e professore Roberto Sottile): l’effetto comico del ritornello (se c’è) nasce dall’accostamento tra due lingue diverse lasciando intatti i vocaboli che è cosa lontana dall’effetto dato, ad esempio, dall’uso di un termine sicuramente siculish come “carru” (questo sì di nuovo conio) per indicare l’automobile. Lì, difatti, si ritrovano straordinariamente fusi due termini: “car” e “carrettu”.
Anche nel recitato finale non ci sono “nuovi vocaboli” ma un uso onomatopeico dei nomi degli stati americani per simulare un finto inglese che all’ascolto risulta vicinissimo al siciliano. Ma nessun parlante siculish direbbe mai “Alaska, Alaskati di ddocu” intendo dire …“allàscati”!
Mi fa piacere dire che “Troppu very well” è il più probabile titolo del disco sull’umorismo cui ho accennato prima.
Sei mai stato in America?
Sì, due volte negli Stati Uniti: nel 1986 e nel 1988. Furono entrambi viaggi di due settimane, troppo brevi per dire di esserci stato veramente. Eravamo lì a cantare per i nostri emigrati e mi stupì molto la grande varietà delle condizioni economiche e psicologiche che ho trovato. In quegli anni fumavo, purtroppo. Entrai in un tabaccaio di Little Italy per comprare le sigarette e la signora anziana che era lì, quando capì che era da poco arrivato da Palermo, entrò in agitazione e mi disse: “Non ci dovete venire qui, l’America è cattiva, cattiva!”. Non fu certo un …benvenuto!
Come tutti, sono rimasto sbalordito dalle dimensioni e, come tanti, sono salito sulle Torri Gemelle di New York. Devo dire che vorrei tornarci.
E’ vero che gli artisti siciliani sono individualisti e che pensano solo a se stessi?
È un’affermazione amara ma sono convinto che sia purtroppo vera per buona parte degli artisti siciliani. Fortunatamente non proprio per tutti. Trovare “giustificazioni sociologiche”, come fanno alcuni, puntando sulle difficoltà in cui si naviga da sempre mi sembra davvero ridicolo: nelle condizioni di disagio gli individualisti, semmai, sono ancora più spregevoli.
Io però posso pure capire quegli artisti che hanno il bisogno di affermare la loro “specificità” o che non se la sentono di condividere il loro progetto con altri. Anch’io, ad esempio, che penso di avere manifestato abbondantemente il mio propendere per quella “vocazione corale” cui ho fatto già riferimento, non penso di poter o voler interagire con tutti. Ma non sono questi atteggiamenti che possono generare preoccupazione o creare condizioni necessariamente negative.
I soggetti veramente dannosi sono quelli che hanno alle spalle padrini molto forti e che diventano “assi piglia tutto”. Quelli sono veramente preoccupanti e perniciosi e, senza ombra di dubbio, socialmente pericolosi perché orientano e deformano a loro beneficio lo sviluppo di tutto, non solo ciò che è connesso agli eventi e ai processi culturali e artistici.
Mi riferisco ovviamente all’uso e alla destinazioni dei finanziamenti pubblici in questo settore e alla gestione di teatri e di tutte le altre strutture connesse.
Auspico da tempo l’istituzione di un “comitato pubblico di indagine” che faccia chiarezza su un tema preciso: chi, come, perché e quanto ha ricevuto in termini di finanziamento pubblico e che cosa ha prodotto per la collettività. Un tale comitato non dovrebbe avere necessariamente nessun potere di condanna ma pieno accesso a tutte le carte: basterebbe rendere pubblici i risultati su quanto è successo nell’ultimo quarto di secolo per individuare gli squali e i tanti pesci pilota e dirottarli a navigare verso altre acque.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Penso di aver ampiamente maturato il diritto di occuparmi solo delle cose che scrivo e canto, quindi gran parte dei miei progetti futuri saranno sostanzialmente caratterizzati da questo fatto. Grazie alla collaborazione con Giovanni Nanfa conto di tornare presto in concerto intanto al Teatro Jolly. E sempre in teatro, immediatamente dopo la riapertura, organizzeremo la registrazione del mio disco sull’umorismo. Edoardo ha giustamente osservato che sarebbe di una freddezza glaciale registrarlo in studio: l’unico modo di fare veramente umorismo e farlo col pubblico. Quindi sarà un live al quale inviteremo un po’ di amici e di affezionati del teatro Jolly. Per questa occasione avrò anche la fortuna di non dover suonare la chitarra perché al mio fianco ci sarà ancora il grande e insostituibile Giuseppe Greco.
Spero vorrai esserci anche tu magari con i tuoi lettori che avranno il piacere di stare in nostra compagnia.