Giuseppe Maurizio Piscopo
In un tavolo di un bar di piazza Cavour, a pochi metri dal maestoso Castello chiaramontano, incontro ed intervisto il maestro Giuseppe Piscopo. Qualcuno già sta pensando ad una mia autointervista, quasi a parlare ad uno specchio. Ed invece, a condividere un buon caffè e due paste reali c’è l’altro Giuseppe Piscopo, come me di Favara, come me maestro di scuola elementare, come me innamorato del suo paese, della sua storia, delle sue tradizioni. Un paese che racconta periodicamente attraverso i suoi articoli su Malgradotuttoweb, molti dei quali pungenti ma ironici al tempo stesso. Ed allora l’occasione la colgo al volo per dire all’altro Giuseppe Piscopo quante volte la gente mi fa i complimenti o mi rimprovera per qualche articolo. Ed io a specificare che Giuseppe Piscopo, il giornalista ufficiale, quello iscritto ad un Ordine professionale non sono io ma l’altro. Lui mi guarda, sorride e mentre con gli occhi tenta di finire la sua pasta Elena, (a lui familiare per averla “creata” la prima volta il famoso pasticcere Don Cecè, nonno della moglie Marcella) mi dice subito: “Lo sai quante volte mi fanno i complimenti per le suonate con la fisarmonica, per le serenate, per le interviste radiofoniche, per i libri-antologie: io “incasso” i complimenti, reggo all’equivoco, e poi sottovoce chiarisco che quel Giuseppe Piscopo non sono io ma tu.”
Ed allora ai nostri lettori chiariamo i nostri ruoli, molti dei quali comuni. Tutte e due siamo innamorati del mestiere di Maestro, della scrittura, ma io canto e suono. Lui nei suoi “pezzi” o nei suoi post, molto seguiti sul suo profilo Facebook, si diverte a… “suonare” e bacchettare chi, chiamato a risolvere varie situazioni, si sottrae al proprio ruolo istituzionale.
Giuseppe, quando nasce esattamente la tua passione per la scrittura e per il giornalismo?
“Da piccolo, dai banchi della cosiddetta “scuola dell’obbligo”. Non amavo la matematica, il mettere in colonna i numeri. Alle cose schematiche, oggettive e un po’ rigide preferivo le cose descrittive, entrare nei particolari, curiosare. I primi articoli li ho scritti alla scuola media: ero il direttore, caporedattore, inviato, cronista di un giornale “cartaceo” in tutti i sensi, fatto con il vecchio foglio protocollo con i margini. Si chiamava: “Lo squillo biancazzurro”, raccontava le partite del Favara, lo scrivevo la domenica sera e lo rendevo noto in classe il lunedì mattina. Con i miei compagni, con i quali ancora ora ho contatti quotidiani, andavamo a seguire le partite del Favara. Non volevamo scavalcare il muro per andare in gradinata. Ed allora entravamo da ingressi cosiddetti “di favore” o con lo storico maresciallo della Stazione dei Carabinieri Giuseppe Mauro, padre di Massimo, nostro compagno, o con Umberto Re, corrispondente storico del Giornale di Sicilia, e mio “padre nel cammino giornalistico”. Vedere la partita dal bordocampo, entrare prima e dopo negli spogliatori, ascoltare gli umori di allenatori e giocatori mi permettevano, anche se ragazzino, di “rubare” il mestiere di cronista. Alla scuola media ero l’unico che, ogni lunedì, comprava nell’edicola dell’indimenticato Tano Palermo i due quotidiani siciliani. Mi servivano per confrontare gli articolo di Mimmo Felice e Umberto Re con quello scritto a penna sul mio “Lo squillo biancazzurro”. Iniziavo a fare le prime rassegne stampa. Spesso i bidelli e qualche prof “tirchio” mi chiedevano in prestito la copia dei quotidiani, ma che spesso non mi ritornava integro”.
“Da piccolo, dai banchi della cosiddetta “scuola dell’obbligo”. Non amavo la matematica, il mettere in colonna i numeri. Alle cose schematiche, oggettive e un po’ rigide preferivo le cose descrittive, entrare nei particolari, curiosare. I primi articoli li ho scritti alla scuola media: ero il direttore, caporedattore, inviato, cronista di un giornale “cartaceo” in tutti i sensi, fatto con il vecchio foglio protocollo con i margini. Si chiamava: “Lo squillo biancazzurro”, raccontava le partite del Favara, lo scrivevo la domenica sera e lo rendevo noto in classe il lunedì mattina. Con i miei compagni, con i quali ancora ora ho contatti quotidiani, andavamo a seguire le partite del Favara. Non volevamo scavalcare il muro per andare in gradinata. Ed allora entravamo da ingressi cosiddetti “di favore” o con lo storico maresciallo della Stazione dei Carabinieri Giuseppe Mauro, padre di Massimo, nostro compagno, o con Umberto Re, corrispondente storico del Giornale di Sicilia, e mio “padre nel cammino giornalistico”. Vedere la partita dal bordocampo, entrare prima e dopo negli spogliatori, ascoltare gli umori di allenatori e giocatori mi permettevano, anche se ragazzino, di “rubare” il mestiere di cronista. Alla scuola media ero l’unico che, ogni lunedì, comprava nell’edicola dell’indimenticato Tano Palermo i due quotidiani siciliani. Mi servivano per confrontare gli articolo di Mimmo Felice e Umberto Re con quello scritto a penna sul mio “Lo squillo biancazzurro”. Iniziavo a fare le prime rassegne stampa. Spesso i bidelli e qualche prof “tirchio” mi chiedevano in prestito la copia dei quotidiani, ma che spesso non mi ritornava integro”.
Cosa ricordi di quando eri bambino, il primo giorno di scuola, i compagni, il Maestro, l’atmosfera che si viveva allora a Favara?
“Per raccontarti tutto quello che mi stai chiedendo abbiamo bisogno di altri due caffè lunghi ed anche altre due paste Elena. Ma siccome sono in “castigo alimentare” e non posso peccare di gola allora sintetizzo il tutto. Ricordo benissimo il primo giorno di scuola elementare, ma ricordo con maggiore piacere l’ultimo giorno di asilo, come si chiamava ai nostri tempi. Ero saturo di costruzioni e cera pongo e volevo andare a 5 anni già in pensione. Perché in quell’anno mio nonno materno, il geometra Calogero Vella, andava in pensione dal Comune di Favara ed io, ogni giorno con lui, incollavo in un foglio numerato tanti adesivi, che lui mi faceva chiamare “marche”. Poi lui andò veramente in pensione. Io, invece, in prima elementare. Ricordo, una classe numerosissima: oltre 35 compagni ed una maestra dal nome particolare: Wanda. Di lei avevamo timore ma ci conquistò subito. E’morta a fine estate. Due anni fa, con oltre 20 compagni, l’andammo a trovare a casa. Si fece felice e ricordammo tante cose. Di quegli anni voglio cancellare solo il mio ruolo di capoclasse, perché a volte apparivo antipatico ai miei compagni quando ero chiamato a vigilare la classe, in assenza della maestra”.
E Favara com’era?
“Io sono del 1967. Già il centro storico si stava allargando verso le periferie. Io da via del Carmine a due anni mi trasferii in un condominio in via Kennedy, e per mia nonna paterna ci eravamo trasferiti vicino Agrigento. Ma noi vivevamo il centro storico, “vivevamo” la strada. Piazza Cavour ed il Bar Italia di Nellò Butticè, papà di Francesco mio compagno, era uno dei nostri ritrovi. Ma anche piazza Olimpia, il campetto dei vocazionisti ed il campetto del seminario. Camminavamo con un pallone sempre dietro e spesso “in trasferta” in altri quartieri come San Calò, Auliva, Giateddra, Casteddru, via Agrigento sfidavamo i bambini del quartiere. Aspettavamo la Fiera d’Ottobre per le giostre, ma spesso rimanevamo incantati in Piazza Madrice dal venditore di coperte che spiegava il tutto con un microfono avvolto ad un fazzoletto al collo. La Fiera ci serviva per partire pur rimanendo a Favara: andavamo nella baracca di Gaeta che vendeva calzature e ci sentivamo a Napoli. Vallo a spiegare ora ai bambini figli dei centri commerciali e degli acquisti su internet”.
Chi sono per te i bambini di oggi, credi che siano felici i nativi digitali?
“I bambini sono cambianti negli anni con i cambiamenti della società. Quando vedo giocare un gruppo a pallone in qualche stradina senza traffico di macchine mi sento felice. Così come quando si scambiano le figurine. Oggi giocano alla play station, hanno tre vite come i livelli del videogioco, parlano anche bene l’inglese, ma non sanno il significato di qualche termine siciliano, di qualche proverbio. Sono proiettati e catapultati in avanti, per correre veloce rischiando di cadere. A volte è importante sedersi su una scalinata e guardare il passato, capire da dove veniamo”.
Molti ti apprezzano per la tua didattica pratica, fatta anche con uscite per strada e per il continuo collegamento tra discipline, territorio, storia locale che “cerchi e trovi” nelle tue lezioni. Sei uno dei pochi “maestri” che a regime da anni fai crescere i tuoi alunni “cittadini attivi” grazie alla tua passione: il giornalismo. Come fai?
“A me piace il contatto con i ragazzi, la didattica, contribuire a farli crescere e maturare, ad educarli ed istruirli. Anche attraverso il gioco: spesso in molte aule delle tante scuola in cui ho insegnato ho lasciato la scritta: “Si studia giocando, si gioca studiando”. In questo particolare “gioco” ho inserito quello di far sentire l’alunno un “giornalista”. Una professione non sempre apprezzata da tutti, ma che ancora ora ha un suo fascino particolare. Ed allora il giornalismo diventa un contenitore al cui interno “inserisci tutto”: dall’italiano alla geografia, dalla storia alla tecnologia, dalla logica all’informatica, dall’arte e immagine alle scienze. Ma anche geometria, musica, educazione motoria. Perché fare giornale è come fare squadra, è come fare coro e orchestra, è fare gruppo. Ed avere spazi fisici delimitati, tempi da rispettare.”
Quanti laboratori di giornale hai coordinato nei tuoi anni di insegnamento? E, questo te lo chiede un collega, i Dirigenti Scolastici hanno mai agevolato questa tua proposta didattica e formativa?
“Ho avuto la fortuna di lavorare in scuole con direttori, presidi, ora Dirigenti scolastici che, con una intesa istantanea, mi hanno dato da “editori” carta bianca alle mie proposte, permettendo agli alunni delle proprie scuole di vivere esperienze didattiche particolari. Li voglio citare per correttezza, perché “fare un giornale” è un lavoro e un successo di team: Gaetano Arnone con il quale abbiamo creato a Favara il giornale “Terzo Circolo”; Enza LoNobile a Fontanelle con l’esaltante esperienza di www.scuolavergaag.it; Gaetano Fallea con il giornale “Ipia MARCONI”; Rosetta Cartella con “Il Megafono” a Licata e “La voce dei ragazzi” alla Brancati di Favara; Antonietta Morreale al “Falcone Borsellino” di Favara con “L’Albero” e Eugenio D’Orsi, mio attuale Dirigente scolastico all’I.C. “Cangiamila” di Palma di Montechiaro grazie al quale lo scorso anno abbiamo dato il via a “Cangiamilagreen”, un giornale online già letto dal oltre 15.000 lettori e premiato lo scorso anno per la sezione “Territorio” dall’Associazione Nazionale Giornalismo Scolastico”.
Che cosa è diventa la buona scuola di oggi, tanti libri, tante circolari, tanti progetti: è vero che la scuola alla fine ha perduto i bambini?
“La vera “buona scuola” non è il titolo freddo di una legge che ha voluto stravolgere il sistema scolastico italiano. Io non sono contro le novità: lo dimostrano le mie attività. Sono contro i cambiamenti tentati e fatti solo per il gusto di dire: “Cambiamo” senza sapere che cosa, come e perché. La buona scuola è quella che ogni giorno tanti maestri e maestre, tanti prof, tanti dirigenti cercano di portare avanti per non perdere di vista proprio i bambini”.
Da quasi 30 anni svolgi l’attività di giornalista, con tantissime collaborazioni in TV, radio, giornali e anche con tante esperienze da direttore di testate. Ma a quale “strumento” di comunicazione ti senti più portato?
“Ho fatto poca tv, collaborando per un anno con Prima Rete di Agrigento e per un periodo con Teleacras. Una buona palestra di vita invece è stata la Radio, ed in particolar modo Radio Favara 101. Grandi maestri, gente perbene, ragazzi con la testa a posto: io ero uno dei più giovani. E nonostante l’età a 18 anni entrai nel direttivo e fui “catapultato” per alcuni anni anche a dirigere il Notiziario, sapendo che migliaia di favaresi stavano incollati alle radioline per ascoltare le nostre notizie. Ma il vero amore è stato sempre il giornale, l’inchiesta, i reportage, le interviste scritte. Ma anche la creazione di un vero e proprio giornale, l’impaginazione, i titoli. Durante il periodo universitario mi sono “fatto le ossa” collaborando quotidianamente con il Giornale di Sicilia, non solo come corrispondente dalla nostra provincia ma frequentando assiduamente la redazione di via Lincoln. In un periodo d’oro del giornale, con tanti “mostri sacri” dietro le Olivetti 22”, vivendo gli anni bui di Palermo e della Sicilia, delle grandi stragi di Mafia”.
Tra le tue molte esperienze c’è stata quella di amministrare Favara, questo “difficile” paese senza regole: che puoi dire in merito? Hai nostalgia? Ci sarà un tuo ritorno in campo politico?
“In politica non si dice ne mai e ne sempre. Io ho detto “si” al mio impegno politico in due fasi particolari della vita politica di Favara, ritenendo utile il mio contributo, consapevole che “fare politica” non è un lavoro, un mestiere, ma un servizio. L’ho interpretato così nei miei nove anni di vicesindacatura e assessorati vari. Mi auguro che i miei compaesani abbiano apprezzato il mio modo di fare, il mio modo di stare dentro il Palazzo e in mezzo le strade, con gli impiegati e la gente comune. Non ho nostalgia, nè rimpianti. Certo potevo fare di più. Ma se non l’ho fatto non è stata pigrizia o menefreghismo. Non mi piace elencare le cose fatte. La gente sa cosa abbiamo fatto di positivo e anche gli errori commessi. Una cosa è certa: il primo giorno di assessorato e di vicesindacatura ero “carico a mille” e sognavo ad occhi aperti monumenti aperti, aree verdi attrezzate, bambini da far giocare sui prati, turisti in giro per Favara, una città più ordinata, iniziando dalla denominazione di vie e piazze. Alcuni di questi sogni ho contribuito a renderli reali”.
E’ scesa la sera su Piazza Cavour. I due Giuseppe Piscopo si ridanno appuntamento per un altro caffè e magari un pasticcino di pasta reale. Perché con il Giuseppe Piscopo maestro, direttore di giornali scolastici, giornalista, editore, libraio, organizzatore di eventi, amministratore, un’intervista non basta. Chissà se la prossima volta ci dirà che ha imparato a suonare anche la fisarmonica…
“Per raccontarti tutto quello che mi stai chiedendo abbiamo bisogno di altri due caffè lunghi ed anche altre due paste Elena. Ma siccome sono in “castigo alimentare” e non posso peccare di gola allora sintetizzo il tutto. Ricordo benissimo il primo giorno di scuola elementare, ma ricordo con maggiore piacere l’ultimo giorno di asilo, come si chiamava ai nostri tempi. Ero saturo di costruzioni e cera pongo e volevo andare a 5 anni già in pensione. Perché in quell’anno mio nonno materno, il geometra Calogero Vella, andava in pensione dal Comune di Favara ed io, ogni giorno con lui, incollavo in un foglio numerato tanti adesivi, che lui mi faceva chiamare “marche”. Poi lui andò veramente in pensione. Io, invece, in prima elementare. Ricordo, una classe numerosissima: oltre 35 compagni ed una maestra dal nome particolare: Wanda. Di lei avevamo timore ma ci conquistò subito. E’morta a fine estate. Due anni fa, con oltre 20 compagni, l’andammo a trovare a casa. Si fece felice e ricordammo tante cose. Di quegli anni voglio cancellare solo il mio ruolo di capoclasse, perché a volte apparivo antipatico ai miei compagni quando ero chiamato a vigilare la classe, in assenza della maestra”.
E Favara com’era?
“Io sono del 1967. Già il centro storico si stava allargando verso le periferie. Io da via del Carmine a due anni mi trasferii in un condominio in via Kennedy, e per mia nonna paterna ci eravamo trasferiti vicino Agrigento. Ma noi vivevamo il centro storico, “vivevamo” la strada. Piazza Cavour ed il Bar Italia di Nellò Butticè, papà di Francesco mio compagno, era uno dei nostri ritrovi. Ma anche piazza Olimpia, il campetto dei vocazionisti ed il campetto del seminario. Camminavamo con un pallone sempre dietro e spesso “in trasferta” in altri quartieri come San Calò, Auliva, Giateddra, Casteddru, via Agrigento sfidavamo i bambini del quartiere. Aspettavamo la Fiera d’Ottobre per le giostre, ma spesso rimanevamo incantati in Piazza Madrice dal venditore di coperte che spiegava il tutto con un microfono avvolto ad un fazzoletto al collo. La Fiera ci serviva per partire pur rimanendo a Favara: andavamo nella baracca di Gaeta che vendeva calzature e ci sentivamo a Napoli. Vallo a spiegare ora ai bambini figli dei centri commerciali e degli acquisti su internet”.
Chi sono per te i bambini di oggi, credi che siano felici i nativi digitali?
“I bambini sono cambianti negli anni con i cambiamenti della società. Quando vedo giocare un gruppo a pallone in qualche stradina senza traffico di macchine mi sento felice. Così come quando si scambiano le figurine. Oggi giocano alla play station, hanno tre vite come i livelli del videogioco, parlano anche bene l’inglese, ma non sanno il significato di qualche termine siciliano, di qualche proverbio. Sono proiettati e catapultati in avanti, per correre veloce rischiando di cadere. A volte è importante sedersi su una scalinata e guardare il passato, capire da dove veniamo”.
Molti ti apprezzano per la tua didattica pratica, fatta anche con uscite per strada e per il continuo collegamento tra discipline, territorio, storia locale che “cerchi e trovi” nelle tue lezioni. Sei uno dei pochi “maestri” che a regime da anni fai crescere i tuoi alunni “cittadini attivi” grazie alla tua passione: il giornalismo. Come fai?
“A me piace il contatto con i ragazzi, la didattica, contribuire a farli crescere e maturare, ad educarli ed istruirli. Anche attraverso il gioco: spesso in molte aule delle tante scuola in cui ho insegnato ho lasciato la scritta: “Si studia giocando, si gioca studiando”. In questo particolare “gioco” ho inserito quello di far sentire l’alunno un “giornalista”. Una professione non sempre apprezzata da tutti, ma che ancora ora ha un suo fascino particolare. Ed allora il giornalismo diventa un contenitore al cui interno “inserisci tutto”: dall’italiano alla geografia, dalla storia alla tecnologia, dalla logica all’informatica, dall’arte e immagine alle scienze. Ma anche geometria, musica, educazione motoria. Perché fare giornale è come fare squadra, è come fare coro e orchestra, è fare gruppo. Ed avere spazi fisici delimitati, tempi da rispettare.”
Quanti laboratori di giornale hai coordinato nei tuoi anni di insegnamento? E, questo te lo chiede un collega, i Dirigenti Scolastici hanno mai agevolato questa tua proposta didattica e formativa?
“Ho avuto la fortuna di lavorare in scuole con direttori, presidi, ora Dirigenti scolastici che, con una intesa istantanea, mi hanno dato da “editori” carta bianca alle mie proposte, permettendo agli alunni delle proprie scuole di vivere esperienze didattiche particolari. Li voglio citare per correttezza, perché “fare un giornale” è un lavoro e un successo di team: Gaetano Arnone con il quale abbiamo creato a Favara il giornale “Terzo Circolo”; Enza LoNobile a Fontanelle con l’esaltante esperienza di www.scuolavergaag.it; Gaetano Fallea con il giornale “Ipia MARCONI”; Rosetta Cartella con “Il Megafono” a Licata e “La voce dei ragazzi” alla Brancati di Favara; Antonietta Morreale al “Falcone Borsellino” di Favara con “L’Albero” e Eugenio D’Orsi, mio attuale Dirigente scolastico all’I.C. “Cangiamila” di Palma di Montechiaro grazie al quale lo scorso anno abbiamo dato il via a “Cangiamilagreen”, un giornale online già letto dal oltre 15.000 lettori e premiato lo scorso anno per la sezione “Territorio” dall’Associazione Nazionale Giornalismo Scolastico”.
Che cosa è diventa la buona scuola di oggi, tanti libri, tante circolari, tanti progetti: è vero che la scuola alla fine ha perduto i bambini?
“La vera “buona scuola” non è il titolo freddo di una legge che ha voluto stravolgere il sistema scolastico italiano. Io non sono contro le novità: lo dimostrano le mie attività. Sono contro i cambiamenti tentati e fatti solo per il gusto di dire: “Cambiamo” senza sapere che cosa, come e perché. La buona scuola è quella che ogni giorno tanti maestri e maestre, tanti prof, tanti dirigenti cercano di portare avanti per non perdere di vista proprio i bambini”.
Da quasi 30 anni svolgi l’attività di giornalista, con tantissime collaborazioni in TV, radio, giornali e anche con tante esperienze da direttore di testate. Ma a quale “strumento” di comunicazione ti senti più portato?
“Ho fatto poca tv, collaborando per un anno con Prima Rete di Agrigento e per un periodo con Teleacras. Una buona palestra di vita invece è stata la Radio, ed in particolar modo Radio Favara 101. Grandi maestri, gente perbene, ragazzi con la testa a posto: io ero uno dei più giovani. E nonostante l’età a 18 anni entrai nel direttivo e fui “catapultato” per alcuni anni anche a dirigere il Notiziario, sapendo che migliaia di favaresi stavano incollati alle radioline per ascoltare le nostre notizie. Ma il vero amore è stato sempre il giornale, l’inchiesta, i reportage, le interviste scritte. Ma anche la creazione di un vero e proprio giornale, l’impaginazione, i titoli. Durante il periodo universitario mi sono “fatto le ossa” collaborando quotidianamente con il Giornale di Sicilia, non solo come corrispondente dalla nostra provincia ma frequentando assiduamente la redazione di via Lincoln. In un periodo d’oro del giornale, con tanti “mostri sacri” dietro le Olivetti 22”, vivendo gli anni bui di Palermo e della Sicilia, delle grandi stragi di Mafia”.
Tra le tue molte esperienze c’è stata quella di amministrare Favara, questo “difficile” paese senza regole: che puoi dire in merito? Hai nostalgia? Ci sarà un tuo ritorno in campo politico?
“In politica non si dice ne mai e ne sempre. Io ho detto “si” al mio impegno politico in due fasi particolari della vita politica di Favara, ritenendo utile il mio contributo, consapevole che “fare politica” non è un lavoro, un mestiere, ma un servizio. L’ho interpretato così nei miei nove anni di vicesindacatura e assessorati vari. Mi auguro che i miei compaesani abbiano apprezzato il mio modo di fare, il mio modo di stare dentro il Palazzo e in mezzo le strade, con gli impiegati e la gente comune. Non ho nostalgia, nè rimpianti. Certo potevo fare di più. Ma se non l’ho fatto non è stata pigrizia o menefreghismo. Non mi piace elencare le cose fatte. La gente sa cosa abbiamo fatto di positivo e anche gli errori commessi. Una cosa è certa: il primo giorno di assessorato e di vicesindacatura ero “carico a mille” e sognavo ad occhi aperti monumenti aperti, aree verdi attrezzate, bambini da far giocare sui prati, turisti in giro per Favara, una città più ordinata, iniziando dalla denominazione di vie e piazze. Alcuni di questi sogni ho contribuito a renderli reali”.
E’ scesa la sera su Piazza Cavour. I due Giuseppe Piscopo si ridanno appuntamento per un altro caffè e magari un pasticcino di pasta reale. Perché con il Giuseppe Piscopo maestro, direttore di giornali scolastici, giornalista, editore, libraio, organizzatore di eventi, amministratore, un’intervista non basta. Chissà se la prossima volta ci dirà che ha imparato a suonare anche la fisarmonica…