Stelle, forchette, cucchiai, programmi televisivi, libri e rubriche, hanno relegato la cucina dei nostri giorni, quasi esclusivamente, ad una ricerca filosofica di piatti complicati, abbinamenti improbabili e, talvolta, ingredienti poco compatibili.
Questo desiderio costante di ricerca di innovazione ha un po’ messo da parte la tradizione, la ricerca dei sapori e degli odori dei piatti tipici regionali.
Rosario Matina è uno chef di Favara che, nonostante le tendenze del momento, si è appassionato alla ricerca ed allo studio della storia delle tradizioni gastronomico-culturali della Sicilia.
Rosario in controtendenza alle mode del momento, la ricerca costante di coreografie ed accostamenti azzardati, hai scelto la tradizionale cucina della nonna. Raccontaci della tua passione e la ricerca costante dei sapori della nostra tradizione.
Lo studio dei prodotti e delle antiche metodologie e tecniche di lavorazione e di cottura, il ripristino degli antichi strumenti per la lavorazione dei prodotti, e la ricerca costante delle tipicità locali sono le passioni che mi hanno portato, in maniera assolutamente naturale, a scegliere il mio percorso. Un percorso nel quale ogni piatto, ogni accostamento, ogni sapore ha una costante: il rispetto della storia della mia terra e la riscoperta degli antichi sapori.
Parlando di piatti tipici e di tradizione quale migliore occasione per parlare delle specialità che la tradizione accosta alle prossime festività dei morti?
In occasione nel giorno dei morti, visto il sacro rispetto che il nostro paese di Favara ha nei confronti dei propri cari defunti, anticamente anche il cibo non doveva essere di altissima qualità, e si usava mangiare “u cunzulu” che era il cibo stretto necessario per il fabbisogno del corpo umano.
Nella mia famiglia, per quella giornata, si usava mangiare i “favi cotti cu i zarchi e a cutina”, che era un succulento piatto di fave secche rammollite il giorno prima e cotte con la bietola fresca di giornata, la cotenna del maiale e le fette di “pane duro” dei giorni prima bagnato nella zuppa stessa. Ricordo ancora il profumo delle panelle fatte fresche davanti al cimitero, e noi tutti bambini ne approfittavamo per riscaldarci dal freddo, ed approfittare del sapore di questo cibo di strada che nelle nostre case non era usuale preparare, e che non trovavamo mai.
Per i bambini invece cosa prevede la tradizione?
Per noi bimbi, la festa iniziava la sera di Ogni Santi quando, con i nostri nonni, accendevamo le lumine per illuminare il passaggio ai nostri cari defunti, che ci dovevano portare “u cannistru” era un cesto composto con melograno, mela cotogna, noci, u cavallageri o pupo di zuccaru e le taralle che imprezziosivano il “cannistro” e finivano il pasto come dolce per la sera del giorno dei morti. Le vetrine delle pasticcerie erano addobbate con i coloratissimi frutta di marturana ed il cavalleggeri di zucchero, che era uno spettacolo per noi bimbi fermarsi, davanti alle vetrine ed ammirare queste opere d’arte con gli occhi sbigottiti con tanto entusiasmo.
Tutto questo per me è una fiaba fantastica da tramantare ai nostri figli e riscoprirle in progetti itineranti della cultura del cibo e della gastronomia in genere del nostro paese.