Nella vita di Giuseppe Ayala c’è stata una notte, vissuta, sofferta ma rivelatrice, che, come lo stesso autore racconta, gli ha cambiato la vita. Una notte insonne passata ad osservare, da poche decine di metri, lo splendido e maestoso tempio della Concordia di Agrigento, riflettendo al contempo sulla direzione che stava progressivamente imboccando la sua esistenza. Allora Ayala era un giovane e brillante avvocato penalista, che si trovava nella città dei Templi per partecipare alle udienze di un processo che lo vedeva partecipe in veste di difensore di presunti mafiosi. Ma ecco la chiave di volta, e di svolta: una sorta di cosciente rivelazione “alle quattro di un mattino ed in perfetta solitudine”. Il futuro pm del maxiprocesso di Palermo, si accorge, andando ad indagare in fondo alla sua coscienza di uomo, prima, e di siciliano, poi, di non essere “tagliato” per quella professione e per quella visione della realtà: “la mia terra mi offriva le vestigia di una grande civiltà nelle stesse giornate in cui per ore avevo vissuto in diretta la barbarie mafiosa”. Nei giorni successivi all’intuizione agrigentina si dimette dallo studio legale nel quale fino al giorno prima aveva lavorato, per dedicarsi in toto a quello studio finalizzato ad affrontare il concorso in magistratura, al quale da lì a poco avrebbe partecipato, superandolo brillantemente ed entrando a far parte dell’altra categoria di professionisti del diritto, ovvero quelli che, rispetto alla sua precedente esperienza, stanno al di là dello scranno tribunalizio. Così inizia il racconto di vita, avvincente perché personale ed intimo, che Giuseppe Ayala ha affidato al suo libro “Chi ha paura muore ogni giorno”, per i tipi della Mondadori, vero e appassionato diario di una vita vissuta al centro di una delle più importanti e straordinarie stagioni di lotta alla mafia che mai si siano viste. Ayala, fu, infatti, come poco sopra si è accennato, il pubblico ministero che rappresentò l’accusa durante il primo maxiprocesso, quello del 1986 che fece storia, e che fu celebrato in un’aula bunker nei pressi del carcere dell’Ucciardone di Palermo. Fu il processo che più di tutti riuscì ad infliggere le prime vere, reali e durissime condanne ai vari quadri di “cosa nostra”, dagli esecutori ai mandanti, inclusi quei vertici mai fino ad allora puniti o sfiorati da sentenze di condanna. L’immenso lavoro che Ayala pose in essere innanzi ai giudici palermitani, come infatti lui stesso ammette nel libro, fu reso però più semplice dalle ottime e granitiche risultanze probatorie che le indagini dei giudici della procura, tra i quali Falcone e Borsellino, realizzarono, spesso applicando quel c.d. “metodo Falcone”, che tanta parte ebbe nel garantire e determinare le severe pene inflitte ai tanti boss, condanne poi divenute definitive negli anni successivi. Ma “Chi ha paura muore ogni giorno”, con un linguaggio chiaro e fluente, ripercorre anche i tanti momenti difficili che l’autore si trovò a vivere al fianco di Giovanni Falcone, divenuto suo grande amico, e Paolo Borsellino, che in queste pagine è un po’ in ombra, ma solo perché fu con Falcone che Ayala strinse un legame fraterno, complici anche caratteri simili e situazioni particolari che la vita intreccia per motivi a noi oscuri.
continua…
Antonio Fragapane