Il convento ci da l’idea di chiusura dal mondo esterno. Si dice “vado a chiudermi in convento”, ché siamo convinti di chiuderci dentro qualcosa ed, invece, non è così. Anzi, vale il contrario, siamo noi ad esserci chiusi fuori, accettando un’esistenza di polli in batteria.
Dobbiamo essere veloci in un’epoca in continua trasformazione. Veloci, al punto tale, da non avere nemmeno il tempo per pensare. Non riusciamo più a riconoscere ciò che è importante da ciò che non lo è. Nei casi più gravi, riusciamo a servirci anche delle persone come se si trattasse di merce “usa e getta”, ci violentano i media camuffati da generosi donatori, quando ci tolgono la scelta e la vita reale.
Poi ti capita, come mi è capitato di conoscere fra Giuseppe, i suoi ragazzi e tra questi un giovane afgano che trasportava armi per i talebani e adesso si sta preparando a ricevere il battesimo. Un musulmano ospitato dai frati che, ad un certo punto, si interroga sul suo passato e si sorprende della affettuosa ospitalità dei frati che, ieri, percepiva come nemici da annientare.
Ha assistito a barbare uccisioni in nome di Dio e, oggi, scopre l’amore di Dio.
In convento fa diversi lavori, il sarto, il calzolaio, il riparatore meccanico e tutto ciò che gli capita di riparare.
Scappato dal suo Paese, è stato in Iran, in Turchia, poi è riuscito ad entrare in Grecia e da li, nascosto in un camion è arrivato ad Ancona. A venticinque anni ha trovato nella Tenda del Padre Abramo un famiglia, quella francescana, la serenità e la fede in un Dio che non ammazza.
Riceverà il battesimo, mentre un altro giovane, questa volta oriundo dalla Costa d’Avorio si prepara a diventare frate francescano.
Sono tante le storie che si possono ascoltare in convento, mentre si respira immediatamente la pace, la serenità. Si capisce che siamo noi ad esserci chiusi fuori, piuttosto che loro dentro il convento.