Questo pomeriggio, presso la sala del collare del Castello di Chiaramonte, ha avuto luogo la presentazione del libro “La leggenda del raccontatore errante” di Don Vincenzo Arnone. È stato un incontro molto partecipato. Ha aperto i lavori il prof. Antonio Moscato, nella sua qualità di Presidente della Pro Loco organizzatrice dell’evento, il quale – con grande maestria e proprietà di linguaggio- ha saputo rappresentare la personalità di don Vincenzo e il significato storico – culturale della sua opera, specie che – seppur ambientata nei dintorni di Firenze- richiama storie, usanze e riti del nostro territorio. Ha apportato un grande contributo di critica e di confronto con rinomati autori italiani ed esteri il dott. Diego Romeo, giornalista del Giornale “Grandangolo” di Agrigento. Molto esaustiva e completa la relazione del dott. Giuseppe Veneziano, che viene trascritta di seguito per intero al fine di far conoscere un figlio speciale di Favara, riguardando la vita umana e letteraria di don Vincenzo Arnone. L’intervento finale di don Vincenzo è stato molto seguito, specie che ha voluto rappresentare la natura del suo personaggio, il significato dei pensieri espressi dallo stesso e i tempi di sua produzione.
Adesso, dicevamo, pubblichiamo l’intervento del dott. Giuseppe Veneziano.
“Per uno come me che facendo il commercialista è al di fuori delle varie evoluzioni letterarie, non è facile parlare di don Vincenzo Arnone e meno che mai delle sue opere, seppur lo stesso sia molto apprezzato e considerato tra gli scrittori italiani più rinomati del momento.
L’occasione della presentazione del suo libro “ La leggenda del raccontatore errante” e l’invito del fratello prof. Antonio a curarne la presentazione mi ha spinto a dare uno sguardo retrospettivo sull’uomo e sullo scrittore – ancor più sul sacerdote Arnone – al fine di avere una visione completa del suo modo di essere e di credere e di potere esprimere un giudizio con cognizione di causa, scevro da qualsiasi preconcetto storico o ambientale, specie che – data la sua personalità – appare evidente che le sue opere rappresentano ormai un patrimonio storico-culturale del nostro Paese.
Laureato in Lettere Moderne presso la “Sapienza” di Roma, Docente nella Facoltà Teologiche Siciliane, giornalista di quotidiani e periodici di rinomanza nazionale, Don Vincenzo Arnone ha pubblicato nel settore numerose opere molto apprezzate sia dai suoi lettori che da consensi critici molto autorevoli.
É docente incaricato del Corso di Bibbia e letteratura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale,
si occupa di tematiche letterarie e religiose nella saggistica e nella narrativa.
Nell’ambito del Sinodo diocesano di Firenze del 1989-92, ha curato il Gruppo sinodale degli scrittori fiorentini (Luzi, Pampaloni, Saviane, Doni).
Favara, oltre ai natali, di certo, gli ha dato l’impulso e la spinta per volare in alto. In terra Fiorentina, poi, ha completato la sua maturazione, conquistando gli scanni più alti della celebrità letteraria e il legittimo riconoscimento come teologo, narratore, poeta e critico letterario da parte dei più qualificati intellettuali italiani.
Fra le sue opere, sicuramente, si possono elencare: “ La figura del prete nella narrativa italiana del Novecento, l’ombra del padre, Romanzo toscano, Letteratura italiana di ispirazione cristiana, Il paese dell’anima, Come Dio si muove sul palcoscenico, Sulla strada di Betlemme, Le voci del Borgo, La legenda del raccontatore errante”, ecc.
Di certo, dalla lettura dei suoi romanzi, specie quello che riguarda “le voci del Borgo”, condividendo in pieno quanto ha scritto Don Diego Acquisto, ci si trova davanti ad “ un romanzo dal sapore autobiografico nelle vicende come nei luoghi, perché non è difficile scorgere nel piccolo borgo “Gersolé” l’attuale Montebonello- Pontassieve, dove don Vincenzo è stato Parroco per molti anni. Inoltre non mancano pure allusioni significative che richiamano anche i luoghi dove egli ha prestato servizio pastorale per oltre un ventennio nella diocesi agrigentina, prima a Bivona, poi a Porto Empedocle, e quindi a Favara.
Nello specifico, molto significativa, la prefazione al libro del filosofo Sergio Givone, dove il protagonista viene descritto come “ un prete di campagna, un prete semplice, un prete come tanti altri, ma sensibile e attento alla vita della gente, di cui ne intuisce i risvolti psicologici, umani e spirituali e con capacità di guardare indietro nella vita della Chiesa e della storia e di sentirsi legato al presente”.
Molto forte la considerazione fatta dallo stesso, allorquando, continuando, fa constatare che “la storia di Don Luca è al tempo stesso la storia di tutti e quell’angolo di mondo è il mondo”. La stessa diventa veramente interessante e veritiera allorquando viene messa a nudo la natura spartana di quel prete di “campagna” che in uno sfogo sincero dell’anima esclama : “ Io non recito! Sono altri quelli che mettono in scena la vita come in un teatro: artisti, intellettuali, uomini politici ……. Per costoro la vita è sempre qualcosa di più o meno dorata”. Per lui no: “la vita è la vita. E alla vita, alla verità della vita, bisogna essere fedeli, come alla propria missione.”
Questo, in sintesi, è la natura di Don Vincenzo, il quale nella sua grande schiettezza – attraverso i suoi comportamenti lineari e i suoi scritti ormai molto rinomati e famosi – rappresenta il suo modo di essere “prete del borgo” e nel contempo scrittore che ha fede e cuore e diventa esempio di vita vissuta tra la povera gente, traendo ispirazione dal suo ruolo e dai valori evangelici con una particolare attenzione al quotidiano.
La Repubblica, nel suo articolo “ Se il romanzo indossa la tonaca”, allorquando fa riferimento alla figura del prete nella narrativa novecentesca, esenta da una eventuale faziosità il lavoro di don Vincenzo Arnone, in quanto, a suo parere, “orientato a documentare antinomie, inquietudini e la crisi costituzionale del sacerdote”.
Nello specifico, invero, nello stesso articolo si legge: “ Per fortuna Arnone ci risparmia lo stantio tormentone più che secolare sulla possibilità in Italia di scrivere un romanzo cattolico, ma indulge talvolta, nei cappelli di presentazione dei testi, a qualche enfasi corporativa”.
Ogni opera presenta le sue caratteristiche, seppur in tutte viene sottolineata la tensione dell’uomo, la sua ansia ed anche la sua speranza, nonché la ricerca del trascendente.
Nel libro “ La leggenda del raccontatore errante”, di cui ho avuto l’incarico e l’onore di presentare, l’autore racconta una storia ambientata a Firenze durante gli anni cinquanta, che riprende fatti ed avvenimenti veri o inventati, per cui diventa una sorta di leggenda.
Il personaggio protagonista è il saggio Sirio, detto “Ciapino del Borgo”, un tipo curioso e dalle battute pronte e fantasiose, un vero e proprio raccontatore errante che si sposta di paese in paese, raccontando alla gente storie il più delle volte fantasiose e inventate e creando attorno a sé un uditorio attento e interessato.
L’opera presenta particolari richiami storici e culturali al mondo contadino di una Sicilia molto antica dal sapore leggendario, che – senza dubbio – si accomunano al mondo agricolo di tutte le zone del paese.
E così, con stile arcaico alquanto gradevole, l’autore ci accompagna per luoghi noti della nostra Sicilia, in un viaggio nel tempo al cospetto di più o meno illustri personaggi storici.
E di seguito con linguaggio moderno, sempre più collegato al nostro tempo, fino all’incontro con i più rinomati giornalisti fiorentini, in un intreccio dove cultura e notizie, passato e presente, dramma e commedia, ma anche fantasia e farsa si susseguono e si rinnovano alternativamente. Sul piano lessicale – senza dubbio – l’opera viene presentata in una forma linguistica abbastanza piana e scorrevole, assolutamente priva di inutili leziosità, per cui il racconto riesce molto piacevole.
In questo connubio linguistico – letteraio, la caratteristica più evidente dei suoi “racconti” é il richiamo ad un passato lontano, dove con la fantasia si può senza dubbio risalire ai famosi: “si cunta e si raccunta ca na vota c’era” dei “cunti siciliani”.
Non a caso, in prima pagina, l’autore – oltre a richiamare una considerazione di Joseph Roth: “ Soltanto chi ritrova i sogni dell’infanzia può tornare bambino” – inizia ogni suo capitolo con il classico: “ C’era una volta…….!”.
Non manca nel romanzo comunque anche qualche osservazione di vario genere compresa quella specifica di tipo socio-politico, in un raffronto tra un passato carico di tensione ideale ed il presente di rassegnata amarezza e delusione. Tutto ciò viene fuori, oltre che dai racconti di Ciapino, anche attraverso le azioni ed i dialoghi dei suoi personaggi.
Nel prologo, per esempio, si evidenzia un forte contrasto tra l’umile figura di Elide e la personalità di Jacopo da Quarto, un conflitto comportamentale tra il pievano di Remole, Ciano il barcaiolo e lo stesso Ciapino, il quale risponde alle varie richieste che gli vengono poste durante la strada alla pari di un ballerino, saltellando e canticchiando filastrocche.
Molto emblematica risulta la figura di Tubi, il quale arriva a parlare con i morti e per questo alla fine viene considerato dalla gente un pazzo.
Fantasiosa risulta la ricerca del “cuore del paese” effettuata dai viandanti pellegrini.
Anche le figure di Patroclo e di Eva riescono molto umane e convincenti, specie allorquando l’uno vuole confessarsi apertamente e chiedere il perdono dei peccati di tutta la sua vita prima di morire e l’altra, pur essendo protestante, consente che fosse chiamato il prete.
Molto caratteristica la storia del “Carceriere del vento”, dove passato e presente si inseguono in un miscuglio di dei, miti, pensatori ed eroi ( Zeus, Apollo, Eolo, Eva, Edoneo, Nesti, Parmeide, Zenone, Pitagora), ripercorrendo paesaggi caratteristici della Sicilia antica ( Akragas, Leontini, Siracusa, Messania, Gela, e altri villaggi).
Enigmatica risulta la figura dell’”Omino Silenzioso”, che – dopo una vita passata in silenzio – riscopre “la parola e una schietta sensibilità ….. persino una insperata finezza d’animo” allorché riesce a salvare un gabbiano. Significativa, nello specifico, la considerazione del priore, allorquando, in risposta al racconto dell’omino silenzioso, dice: “ Bene, bene; vedo che sei stato attento a cose che altri rimangono ai margini dei loro interessi. La natura è bella: dovrebbe essere osservata ed amata. E’creatura di Dio. Sono felice di quel che hai fatto”.
Alquanto significativa “la storia dell’uomo che ritornò sulla terra”. Da essa, di certo, se ne trae un grande insegnamento per la vita, specie quando si va contro i principi morali a danno della libertà sociale ed umana.
In un miscuglio di realtà, politica e sogni, nel rappresentare la sfarzosa e potente vita svolta accanto a un gerarca e la rinuncia ai benefici da essa derivanti, emerge dal racconto una grande speranza di riscatto civile e la certezza che “il comunismo sarebbe inevitabilmente crollato “ ed il paese avrebbe visto “davanti a sé un raggio di luce”.
Molto caratteristica “la storia dell’uomo che scriveva la sua storia sui marciapiedi”… ma ad un tempo, anche quella della società.
Essa rappresenta la vita di due fratelli cresciuti in una famiglia povera, ma molto unita, che alla morte dei loro genitori, hanno dovuto separarsi seguendo ognuno la propria vita: uno lascia il paese, l’altro rimane dove nacque.
Dalle loro lettere traspare un affetto viscerale dove gli oggetti, gli alberi, la natura, le voci acquistano un valore particolare.
Molto toccante e bella l’espressione di uno dei fratelli, allorché andando con il pensiero indietro nel passato, si esprime scrivendo:” Così nel tempo che non ha fine, risento le voci antiche dei miei avi che erano sui campi, e dei vostri che erano nelle botteghe d’artisti”, mentre la gente diceva: “ Ma questa è una favola! Questa è una favola”!
Alquanto veritiera, seppur fantasiosa, risulta “la storia dell’Esodo Girgentano”, dove di fronte ad una “regalia di luoghi e di persone” fatta dal re Ruggero a Messere il Duca di Spoleto, si coglie intanto un grido di appartenenza e di attaccamento ai paesi natali da parte degli abitanti: “Qui siamo nati e qui vogliamo morire”.
Poi, In una descrizione reale della natura e dei paesaggi traversati, vengono descritti i tanti disagi e l’ansia della gente per arrivare alla terra promessa e coronare un grande sogno!
“ Il sogno! Il sogno! Non vedete?……..ci siamo. Qui ci fermeremo …… Qui costruiremo il paese, il nostro paese …..e lo chiameremo Girgenti ….. Si lo chiameremo Girgenti.”
Molto toccante il racconto de “il bel Vecchio”, dove viene raccontata la storia di S.Calogero, rappresentato come il saggio emigrante che da schiavo si porta alle porte della santità.
Alquanto fantasiosa la storia de “l’uomo che ascoltava la voce dei giganti”, dove – dagli appunti di un morto ( Simone) – i figli riscoprono dei principi irrinunciabili della vita e l’orgoglio dell’appartenenza, dettati “dalla voce degli antichi, di uomini senza tempo”. Molto toccante il testamento del padre lasciato ai figli: “ Siate fieri di vostro padre. Alle dicerie non prestate attenzione e camminate ….. a testa alta”.
Molto realistico il racconto “del paesino che giocava al tiro della fune”, dove in sintesi si mette in evidenza che basta una mela marcia ( sor Umberto) per fare infradicire una cesta di mele, per cui quel paesino da Concordia diventa Babilonia.
Molto bella e significativa la strofa della Novena del Pianto di Maria declamata nel giorno del Venerdì Santo con la quale l’autore tende a far rivivere le tradizioni religiose del borgo e, sicuramente, quelle dei paesi dell’Agrigentino.
Con l’epilogo, viene presentato la conclusione della vita di Ciapino, morto con il Crocifisso tra le braccia, mentre la gente esclamava :” E’ un santo, è un santo ….”, e il parroco, nel rammentare la sua umile vita, predicava “ A lui diamo lode e gloria in questo giorno di festa del Crocifisso che rimane per secoli, a ricordo della sua pietà e della nostra fede.”
A questo punto, ritengo sia giusto concludere questa recensione richiamando l’affermazione di Antonio Lo Vasco, quando nello specifico va ad affermare: “Lode e Gloria anche al prete-scrittore, per l’abilità con cui da fine letterato Vincenzo Arnone ha saputo legare insieme, seguendo il “filo rosso” del suo scanzonato protagonista, tanti racconti.”
Complimenti a Don Vincenzo Arnone.