Con l’art. 1 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, il Governo presieduto da Matteo Renzi ha riconosciuto, per l’anno 2014, un “credito d’imposta” ai titolari di reddito di lavoro dipendente e di alcuni redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, la cui imposta lorda sia di ammontare superiore alle detrazioni per lavoro dipendente agli stessi spettanti.
L’importo del “credito” riconosciuto è fisso, e cioè 640 euro annui (pari a 80 euro mensili), importo che decresce, però, fino ad azzerarsi nel caso di redditi complessivi compresi tra i 24 mila euro e i 26 mila euro.
Il riferimento all’imposta lorda dovuta – che deve essere superiore alla detrazione per lavoro dipendente spettante – è fatto, non per determinare l’effettivo ammontare del “credito”, ma unicamente per individuare i soggetti beneficiari (coloro che siano in concreto tenuti a pagare un’imposta netta, anche di un solo euro, ovvero non tenuti addirittura a pagare alcuna imposta, in quanto usufruiscono di altre detrazioni per carichi di famiglia), e quindi per escludere gli “incapienti” (i titolari di redditi complessivi inferiori a 8 mila euro, la cui imposta lorda è inferiore alla detrazione per lavoro dipendente spettante).
Il decreto-legge prevede che il “credito d’imposta” sia “riconosciuto”, cioè liquidato direttamente (“in via automatica”) dal sostituto d’imposta, senza attendere alcuna richiesta da parte dei soggetti beneficiari, ripartendone il relativo ammontare sulle retribuzioni erogate a partire dal primo periodo di paga utile successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso (mese di maggio 2014).
“A tal fine, il sostituto d’imposta utilizza, fino a capienza, l’ammontare complessivo delle ritenute disponibile in ciascun periodo di paga e, per la differenza, i contributi previdenziali dovuti per il medesimo periodo di paga, in relazione ai quali… non si procede al versamento della quota” utilizzata, “ferme restando le aliquote di computo delle prestazioni”. “L’INPS recupera i contributi …. non versati dai sostituti di imposta alle gestioni previdenziali rivalendosi sulle ritenute da versare mensilmente all’Erario nella sua qualità di sostituto d’imposta”.
Insomma, Matteo Renzi, da bravo Sindaco d’Italia, ha fatto come quel suo collega che, volendo concedere un contributo ai lavoratori dipendenti a sostegno del loro salario, ma non disponendo delle somme necessarie nel pertinente stanziamento del bilancio comunale, ha avuto la “geniale” idea di demandare alle aziende operanti nel territorio del Comune la liquidazione di tale contributo ai propri dipendenti, autorizzandoli ad utilizzare, fino a capienza, l’ammontare complessivo della tassa dovuta al Comune per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani e, per la differenza, l’ammontare complessivo del canone dovuto alla Società partecipata dal Comune stesso che gestisce il servizio idrico, autorizzando parimenti quest’ultima a recuperare il canone idrico non versato dalle aziende rivalendosi sull’ammontare complessivo della tassa dalla stessa dovuta al Comune per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
Ovviamente, il conseguente provvedimento amministrativo farebbe a pugni con i più elementari principi di contabilità pubblica e nessun ragioniere comunale lo potrebbe avallare, vistare o accettare, salvo il Ragioniere generale dello Stato.
E’ di tutta evidenza che il Governo di Matteo Renzi ha messo in atto una gigantesca partita di giro (ancora priva di copertura), finanziando il “credito d’imposta” degli 80 euro mensili con le ritenute erariali e previdenziali operate dai datori di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e che dovrebbero versare allo Stato e all’INPS.
Che le “modalità di fruizione” del bonus degli 80 euro mensili siano in contrasto con le regole della contabilità pubblica, in effetti, lo si ammette nello stesso decreto-legge, quando viene previsto che “il Ministro dell’economia e delle finanze e’ autorizzato ad apportare, con propri decreti, le necessarie variazioni di bilancio compensative, anche tra l’entrata e la spesa, al fine di consentirne la corretta rappresentazione contabile”.
Ma siamo davvero in presenza di un “credito d’imposta”? La risposta è certamente negativa, e per i seguenti motivi:
a) il credito d’imposta, per dirsi tale, deve essere contenuto entro il limite massimo dell’imposta netta dovuta dal contribuente beneficiario, mentre la somma “riconosciuta” con il decreto-legge può superare l’importo dell’imposta netta dovuta dal lavoratore dipendente, tant’è che viene espressamente previsto che il sostituto d’imposta – datore di lavoro, nel caso in cui non possa farvi fronte con la relativa ritenuta, può utilizzare anche i contributi dovuti alle gestioni previdenziali;
b) la somma riconosciuta a titolo di credito d’imposta, se di credito si tratta, deve comportare una diminuzione dell’imposta netta, mentre nel decreto-legge viene previsto che la somma “riconosciuta”, che “non concorre alla formazione del reddito” e quindi non è imponibile ai fini delle imposte sui redditi, è erogata dal sostituto d’imposta – datore di lavoro in aggiunta alle ordinarie voci di retribuzione, ferme restando le ritenute erariali e contributive che continua ad essere obbligato ad operare.
Il cosiddetto “credito d’imposta” non è altro, allora, che un comune bonus di carattere assistenziale destinato ai titolari di una specifica tipologia di reddito (lavoratori dipendenti e assimilati), come tale non assoggettabile all’imposta su redditi delle persone fisiche.
Il Governo avrebbe potuto raggiungere lo stesso obiettivo (dare più soldi in busta paga ai lavoratori dipendenti) maggiorando la vigente detrazione prevista per i redditi derivanti da lavoro dipendente, limitatamente ai redditi di importo complessivo inferiore a 26 mila euro.
Così facendo, però, non sarebbe stato possibile per Matteo Renzi costruire la sua campagna elettorale mediatica (alla Berlusconi) sugli 80 euro “visibili” mensilmente in busta paga, perché la modifica dell’importo della detrazione per redditi da lavoro dipendente sarebbe passata come uno dei tanti interventi legislativi in materia fiscale.
Si è voluto, così, piegare l’impostazione tecnico-giuridica degli interventi legislativi alle esigenze della propaganda politica.
La scelta del Governo di definire il bonus come un “credito d’imposta”, peraltro, era necessaria per “giustificare” in qualche modo l’utilizzazione delle ritenute erariali e previdenziali operate del sostituto d’imposta-datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti (queste ultime compensate con altre ritenute erariali) per finanziare un intervento legislativo privo di coperture finanziarie certe.
Se il “credito d’imposta” di 80 euro mensili non è che un comune bonus a sostegno di redditi bassi, c’è da chiedersi se sia legittimo costituzionalmente riconoscerlo soltanto ai titolari di una specifica tipologia di reddito, e cioè soltanto ai lavoratori dipendenti e assimilati.
Non c’è una ragione plausibile che possa giustificare una disparità di trattamento di quei lavoratori dipendenti e assimilati che percepiscono addirittura redditi ancora più bassi, la cui imposta lorda dovuta è inferiore alla detrazione per lavoro dipendente spettante.
Lo stesso può dirsi per i lavoratori dipendenti non più servizio, che percepiscono una pensione inferiore a 26 mila euro annui.
Se la finalità della concessione del bonus è soltanto quella di sostenere i redditi più bassi, nessuna valenza può essere data al fatto che il reddito derivi dallo svolgimento di un’attività di lavoro dipendente.
Ne consegue che il bonus dovrebbe essere riconosciuto – perché non venga violato l’art. 3 della Costituzione – a tutti i titolari di redditi bassi, qualunque sia la natura dell’attività che li produce.
Se il decreto-legge del Governo Renzi non sarà corretto in sede di conversione in legge, non è da escludere che il “beneficio fiscale” previsto possa essere esteso, da un successivo intervento della Corte costituzionale, a tutti i titolari di reddito inferiore a 26 mila euro annui (anche ai tanti “poveri” lavoratori autonomi che dichiarano di guadagnare meno dei propri dipendenti), ovvero possa essere dichiarato non legittimo costituzionalmente, per l’onere finanziario non sostenibile, da parte dello Stato, che una interpretazione legittima della norma comporterebbe.
Calogero Marrella
4 commenti
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RT @favara5stelle: #80euro e poi? http://t.co/DZqaSMHOf5 http://t.co/eI3X5PhwL7
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benissimo! Non resta quindi che fare un quesito alla corte costituzionale perchè si esprima in tempi brevi sulla costituzionalità del provvedimento. Qualcuno ha già provveduto?